“Life, Liberty and the pursuit of Happiness”, la Dichiarazione di Indipendenza americana mi sorprende ancora. Quando la studiai – ed ero già quasi adulta – non riuscivo a credere che degli Stati avessero scelto di inserire il perseguimento della felicità tra i diritti inalienabili dell’Uomo. Wikipedia precisa che la felicità a cui la Dichiarazione fa riferimento non è da intendersi nel senso moderno di “espressione di emozione positive” quanto piuttosto come “tensione verso la prosperità e il benessere” – ma, per me, erano solo dettagli.
Quello che contava per me, appena inciampata nella scoperta, era che delle nazioni ritenessero la felicità un elemento così importante nella vita delle persone da ritenerne il perseguimento un obiettivo di cui i governi si sarebbero fatti garanti. Pazzesco! Una vera e propria rivoluzione copernicana del mio sistema di valori.
Il fatto è che dove sono nata e cresciuta io – in un un Paese di cultura cattolica, in una famiglia votata alla rinuncia e al sacrificio – la felicità era guardata con sospetto: una condizione che, per usare le parole di mia nonna, “Non è di questo mondo” ma dell’altro, quello che avremmo trovato dopo la morte. E come raggiungere quella felicità? Soffrendo.
Non so voi, ma io sono stata educata a temere la felicità.
“Il troppo ridere va a finire in piangere!” ammoniva mia madre;
“Chi ride di venerdì piange di domenica!” ricordava mio padre;
“Il riso abbonda nella bocca degli stolti” ci sgridava la maestra.
Quando hai un imprinting di questo tipo sei portato a guardare non dico all’allegria, ma proprio quella gioia insensata fatta di risatine sciocche, mente leggera e cuor contento, con un certo sospetto. Il genitore-tipo degli anni Settanta – quello un po’ conservatore che aveva fatto il Sessantotto ma non lo aveva capito, quello che non aveva letto i libri del dottor Spock – preferiva che i bambini fossero sereni piuttosto che felici e perché questo avvenisse attuava misure di contenimento: pasti a orari regolari, pisolini pomeridiani, a letto dopo Carosello, tavoli separati in caso di cene con ospiti, emozioni controllate, routine. E anche quando noi bambini non ce la facevamo proprio a reprimere la gioia – ché le corse sul lungomare e certi pomeriggi al parco portavano a un’eccitazione isterica che sfociava in capricci per stanchezza – ci predisponevamo anche ad accogliere il rovescio della medaglia: genitori nervosi e arrabbiati, ragazzini fuori controllo e frustrati. Il prezzo della felicità.
Insomma, sono cresciuta in un clima familiare e scolastico favorevole alla contrizione, in un clima in cui la modestia, la rinuncia, l’afflizione, avevano un valore. Per questo motivo mi è sembrato utile e saggio evitare, quando possibile, la felicità. Intanto perché evanescente – non fai in tempo di accorgerti di essere felice che già è scomparsa – e poi perché ritenevo che fosse presuntuoso da parte mia pensare di averne diritto. “Chi sono io per voler essere felice? Non è egoista, con tutto il male che c’è nel mondo?” Chiedevo a me stessa nella fase dell’adolescenza malinconica, come se quegli attimi di felicità che di tanto in tanto e inaspettatamente mi ritrovavo fra le mani fossero stati sottratti a qualcun altro.
Meglio la contentezza, dunque. La felicità contiene in sé qualcosa di isterico, di effimero, di stridulo già dal nome. La contentezza è solida, duratura, la si può costruire con le proprie mani.
Meglio ancora della contentezza, l’appagamento.
Meglio ancora dell’appagamento, la soddisfazione.
Al contrario della felicità – che instilla gocce di invidia in chi la vede negli altri, creando un inevitabile confronto con le proprie mancanze – contentezza, appagamento e soddisfazione sono socialmente approvati anche per la capacità che hanno di propagarsi in onde concentriche in chi ci è vicino, rendendoci simpatici.
Ma c’è dell’altro. «Stavo pensando a Thomas Jefferson” – dice il protagonista del film di Silvio Muccino The pursuit of happiness» – «e precisamente stavo pensando al fatto che nella Dichiarazione di Indipendenza ha voluto che si inserisse la parte sul perseguimento della felicità. Perseguimento, non felicità: in teoria potresti non raggiungerla mai, non importa quanti sforzi tu faccia. Be’ come faceva a saperlo?»
Basta rincorrere felicità, dunque, concentriamoci sulla contentezza. È quello che devono aver pensato anche Sergio Castellito e Margareth Mazzantini per i loro figli, cui hanno dato “Contento” di secondo nome: Pietro Contento, Maria Contenta, Anna Contenta, Cesare Contento. E, alla fine, è anche quello che ho insegnato ai miei, di figli. «Sei felice?» chiedo loro quando li vedo particolarmente allegri rompendo così il momento di grazia.
«Prima ero felice. Adesso sono solo contento» rispondono.
Bene, avanti così.
“…preferiva che i bambini fossero sereni piuttosto che felici e perché questo avvenisse attuava misure di contenimento: pasti a orari regolari, pisolini pomeridiani, a letto dopo Carosello”.
Mi sono sentita male e ho riso! Giacché abbiamo fatto lo stesso con nostro figlio, non nel ’70 ma pochissimi anni fa!
Questo per la nostra felicità di coppia, ciò non esclude la creazione di altri momenti di serena e gioiosa condivisione famigliare.