L’autrice di oggi è Marina, blogger di Se avessi tempo…, la quale invia CV a vanvera, aspetta il Natale, prepara i biscotti e nei momenti di crisi canta complusivamente “Mare profumo di mare.” (cit. dal suo blog). Anche soltanto per quest’ultima peculiarità, ci sembrava perfetta per confezionare un racconto estivo.
Buona pausa: prendetevi 5 minuti e leggete.
Chiara era impegnatissima ad aspettare che lo smalto sulle unghie dei piedi asciugasse. Se fosse stata nella casa dei suoi nonni, in Liguria, avrebbe potuto camminare scalza sulla marmiglia fresca del pavimento, e andare in cucina a prendere una tazza di caffè, freddo, direttamente dalla moca, sbirciando lo scorcio di mare che si vedeva dalla finestra.
Ma non era nella casa dei nonni, oh no, era cresciuta e mamma e sposata a un tizio che aveva avuto la brillante idea di affittare un camper e portarla in campeggio.
Non che Chiara avesse niente contro la natura incontaminata; solo, trovava che fosse polverosa umidiccia e piena di zanzare, e per la prima vera vacanza da bismamma avrebbe preferito, boh, un villaggio turistico in Messico all inclusive con cuoco italico che preparasse le abominevoli pappette al posto suo, o un albergo sulla spiaggia a Rodi con team di animatori entusiasti e pronti ad animare minorenni camminanti e non. Le sarebbe andata bene anche la Pensione Marialuisa a Riccione con spiaggia con giochini di plastica cotti dal sole .
E invece nisba. Istria, alla ricerca degli antenati perduti del tizio che aveva sposato e che aveva affittato quell’incrocio fra un’astronave e una lavatrice subito rinominato Il Coso per portarci la famiglia, e così lei doveva stare attentissima con i piedi per aria per evitare che le unghie diventassero un orrido paciugo di terra sabbiosa e smalto.
La famiglia in questione allo stato attuale era ridotta appunto a Chiara, seduta fuori dal Coso coi piedi appoggiati su una sedia pieghevole, e Roberto detto Obi di mesi 15, che fingendo di giocare con secchiello e paletta ne approfittava per assaggiare le formiche.
Ogni tanto Chiara buttava un occhio inquieto a tre camper di distanza per captare qualche segnale di vita da Livia, la sua primogenita settenne che dopo due giorni di Camping Punta Verudela era stata inglobata da una famiglia tedesca con svariati figli biondi di altezze assortite; probabilmente a fine vacanza l’avrebbero rapita, giudicandola troppo bionda e nordica e saggia per essere abbandonata alle nefandezze della sua famiglia.
Andrea, il tizio sposato del camper ecc, era in giro per i paesini intorno a Pola a cercare parenti perduti. Un giorno aveva cercato di portarsi dietro la famiglia, facendo perentorie affermazioni sulla necessità di conoscere le proprie origini, ma una vecchina (a suo dire una lontana prozia) aveva dimostrato meno entusiasmo quando erano entrati in bici nel cortile del suo casolare, e li aveva inseguiti con la scopa gridando in croato qualcosa che non suonava come _oh, benvenuto nipote mio ritrovato!!!
Così la famiglia aveva dichiarato di non sentire la necessità di ulteriore parentame, grazie, come avessimo accettato, e Andrea si ritagliava qualche ora per i suoi giri ormai solitari.
A Chiara però sembrava comunque troppo. Non le pesava stare da sola con Obi, bimbo pacioso e riflessivo a cui la pappa approssimativa e la nanna sgnaccato fra mamma e papà non avevano fatto smuovere una virgola. Però da quando erano partiti aveva una sensazione strana, pizzicore alla nuca, sesto senso in allerta.
– E’ come se mi desse fastidio qui, aveva spiegato ad Andrea puntandosi il dito alla radice del naso.
– Hai mangiato il ghiacciolo troppo in fretta, bevi un po’ d’acqua tiepida, aveva risposto Andrea, perso su un foglio dove sua madre aveva disegnato l’albero genealogico.
Ma non passava. Eppure in fin dei conti a Chiara quella vacanza piaceva, anche se non l’avrebbe ammesso nemmeno con un libro di Moccia puntato alla tempia. Il Coso la affascinava, con tutti i suoi spazietti minuscoli e ordinatissimi, e cassettini che spuntavano dal nulla, e letti dove non ti aspettavi ci stesse neanche un comodino. Le sembrava una casa di bambola, come quella di Polly Pocket che aveva sua cugina da piccola, e invece sua madre era per i giochi educativi e Chiara si beccava solo kit per fare la cartapesta.
Chiara si era soffiata sulle unghie smaltate di fresco. Dopo una settimana di quel pizzicorino, come una spia ignota sul cruscotto, quelle che non sai cosa sono e spegni e riavvii sperando che si spengano da sole, le era venuta in mente zia Ersilia.
– Andrea, io lo so cosa mi sento. Continuo a vedere cose, cioè non le vedo, mi sembra di vederle e poi mi giro e non c’è niente, e sono tesa, mi spavento per niente, e non ridere ma io credo…
– Io credo che tu abbia di nuovo letto Harry Potter, come quella volta che eri convinta che ci fosse un dissennatore in garage e invece era un piccione chiuso dentro.
– Un piccione grosso, e tu Il Prigioniero di Azkaban non l’hai letto, fa paurissima, no dicevo, io credo di essere sensitiva, come la zia Ersilia.
– Quella di Casale Monferrato? Quella che mette le trappole per gnomi sul balcone della cucina?
– Non sono trappole, sono offerte di amicizia, e in quel periodo era depressa perché avevano appena smesso di trasmettere Sentieri, e dopo 35 anni di Sentieri una avrà ben ragione di destabilizzarsi se un giorno si svegliano e dicono ops scusate, sapete cosa? non lo facciamo più. Però la zia Ersilia sentiva le cose, come mia bisnonna che le portavano i bambini da segnare, e come il trisnonno Cesare che…
– No ti prego, il trisnonno Cesare che era un druido no, non di nuovo. Amore, la tua famiglia è… uhm, originale. E la zia Ersilia è un tesoro. E tu pure sei un tesoro, e sei stanca, affittare il Coso forse non era l’idea giusta quest’anno. Domani prendo i bimbi e tu vai in spiaggia a leggere.
E in spiaggia c’era andata, si era riposata, ma tornata sotto i pini profumati del campeggio aveva ricominciato a sentirsi inquieta, a vedere ombre con la coda dell’occhio. Si era sbrigata a raggiungere il biancore luccicante del Coso, dove Andrea, Livia e Obi bruciacchiavano marshmallows sul fornelletto.
C’era qualcosa di troppo, di strano, in mezzo a quei pini che sussurravano e incorniciavano il mare. Ne era sicura, nonostante il concretissimo odore di crauti che arrivava dal camper dei tedeschi.
Quella mattina Chiara aveva spedito i tre coinquilini a fare la spesa a Pola, e si era messa a googlare come una forsennata, seduta sola in mezzo ai mirabili incastri del Coso, più che mai convinta che avrebbe trovato qualche notizia di delitti sanguinosi sul terreno del Camping, naufragi al faro vicino, truci leggende locali. In fondo gli indigeni avevano abbastanza senso del folklore da bullarsi di un bel fantasma ululante nella notte, come gli scozzesi, che se c’è il fantasma l’albergo costa il doppio, aveva quasi convinto Andrea per il viaggio di nozze, poi niente, erano andati in Messico.
Ma. Non. Aveva. Trovato. Niente.
Pareva che in questo sanguinoso continente dove la gente per secoli ha guerreggiato per i motivi più scemi, il triangolino di Punta Verudela fosse l’unico posto dove non era mai successo niente di niente, men che meno niente di sanguinario, meno ancora qualcosa (qualsiasi cosa) in grado di dare ragione di essere a una qualunque presenza paranormale.
Era solo un bellissimo triangolo di terra sabbiosa, pini profumati, circondato dal mare e popolato di camper luccicosi e tende colorate.
Sola dentro al Coso aveva insistito, cercato, più infastidita che mai da quel senso di allerta, da quell’angolino di sé stessa che avrebbe voluto scappare a gambe levate.
Niente.
Aveva lasciato perdere.
Aveva iniziato a pensare a quanto era stanca davvero, alle notti a cullare il povero Obi alle prese coi dentini, alle corse per portare Livia agli allenamenti, al lavoro che cercava e non trovava… era stanca. Forse non è un fantasma, aveva pensato, in fin dei conti è da quando siamo partiti che mi sento così, è qualcosa che mi sono portata dietro, non è qui il problema. Forse è un dissennatore davvero, e ora per sconfiggerlo uscirò al sole, mi strafogherò di cioccolata e invocherò il mio Patronus a forma di Freddie Mercury, e sorriderò e mi abbronzerò e mi toglierò queste sciocchezze dalla testa, e mi godrò la vacanza. Perchè non c’è niente che non vada qui, niente di niente.
Poco dopo Livia, Obi e Andrea erano tornati, e li aveva abbracciati forte.
E dopo pranzo si era seduta all’ombra davanti al Coso, e aveva scacciato gli ultimi pensieri nebbiosi con quel meraviglioso smalto lilla acceso ai piedi.
Anzi, finalmente sembrava asciutto. Chiara si era infilata le infradito e aveva preso in braccio Obi.
– Tu, paciocco di mamma, basta mangiare formiche. Ora ci diamo una lavata, cambiamo il pannolo e facciamo un bel pisolo, che poi raggiungiamo papà e la tata al mare. E mamma la smette di pensare a tutte queste stupidaggini.
E alla fine aveva appoggiato Obi fresco nel suo bodino di cotone sul microletto del Coso con le tendine abbassate, nella penombra fresca, col suo profumo buono di bimbo. Gli aveva dato un bacio, l’aveva guardato chiudere gli occhi ed era tornata a sedersi fuori. Accidenti, aveva pensato, come tiene la temperatura il Coso, che bel fresco c’è dentro.
Dentro, fra le ombre del pomeriggio d’estate, Obi si era alzato a sedere sul letto.
– Tao! aveva detto piano al buio, agitando la manina.
Lentamente, molto lentamente, un’anta lucidissima si era aperta.
– Ciao, bambino mio, aveva scricchiolato dall’ombra una voce, come un cigolio di cancello abbandonato.
Questo post fa parte della nostra “collana” di racconti estivi
(foto credits @ anjanettew)
Scusatemi tanto, ero in un posto con pochissima connessione (nonin campeggio XD).
Grazie di cuore, sono contenta che vi sia piaciuto… è un racconto che si è scritto da solo, mi ero seduta per scrivere altro ed è uscito questo. Se uscisse anche il seguito vi faccio sapere!!!!
mi piace!
beeelloooooooo…ma voglio la continuazione!!!anna
Brrrrrr!! Belissimo!
ah perchè io pensavo che anche tu come me soffrissi di emicrania con aura, i sintomi son quelli 🙂 oh sarà che sono sensitiva anche io da ani e non lo sapevo?