La tradizione, ci dice l’etimologia, è una consegna, è un portare cose – come un donare. Per questo motivo, probabilmente, i giorni vicini al Natale si prestano così bene a riflettere sulle tradizioni, come se Natale fosse l’unica o “la migliore” di esse.
In realtà tutto ciò che è tradizione è il dono – non scritto, non documentato, a volte pure non voluto – che ci viene da un passato al quale apparteniamo perché anche noi, che a un certo punto siamo apparsi in quel passato, siamo stati in un certo senso donati, consegnati in quella esistenza che da un certo punto è stata la nostra.
Adesso che sono genitore, capisco meglio – al di là di tutte le storie diverse che le religioni e le leggende vogliono inventarsi – che il problema delle tradizioni lo puoi sentire bene solo quando tu, adesso, sei la tradizione – cioè tu genitore sei il legame con la cosa da trasmettere, che c’era prima di te e che adesso devi tradurre a tuo figlio. Ma cos’è questa cosa? Cos’è la tradizione? E cos’è per me (verso di me e attraverso di me), dato che non potrò fare altro che perpetuare la tradizione che è la mia – oppure rifiutarla in blocco e cominciarne un’altra?
Per me la tradizione è la scoperta e la conferma, compiute attraverso la partecipazione, di un’appartenenza comune. Che si realizzi con un pasto, con uno scambio di oggetti, con la preparazione di un rituale (o con tutte queste cose insieme), non ha poi troppa importanza. La cosa importante è quell’appartenenza.
A cosa apparteniamo io e i miei figli? Cos’abbiamo in comune?
Il sangue no, non c’entra. Non sono certo miei figli per questioni genetiche: lo sarebbero anche se adottati o nati da tecniche di fecondazione. Un luogo, una casa? Mah, Ivan ne ha già cambiata una, io in vita mia più di una dozzina, e chi lo sa se continueremo sempre a vivere qui, in questa casa, in questa città o in questo paese. Per questo, anche la lingua non è detto che sia comune: i miei figli sarebbero potuti nascere in un altro paese, e non parlare la mia “lingua natale”. Allora?
Per quanto vago, la cosa alla quale apparteniamo, la cosa che abbiamo in comune e che ci fa riconoscere vicendevolmente, è proprio il regalo che ci facciamo continuamente, che hanno fatto (o che hanno mancato) a me, e che io faccio a loro, il più possibile: il tempo. Il tempo passato insieme è la tradizione che costruiamo insieme, fatta delle cose più diverse le quali non serviranno più, una volta passato il tempo, in quanto cose, ma solo per ricordare il tempo che allora ci hanno fatto passare insieme, nell’attesa della prossima occasione per tornare a quella tradizione, e per ricordare tutte le altre occasioni passate – anche quelle mancate, anche quelle non avute. Come nel mio caso, per esempio.
Ecco che fare l’albero, scambiarsi i regali, preparare e consumare pasti in tanti insieme, è un usare il tempo comune che ricorda altri tempi passati insieme (anche alle persone che non ci sono più, e che in questi momenti chi è rimasto fa tornare nei gesti e nelle parole) e che apre chi esiste da poco a un tempo passato nel quale non c’era, per portare con sé quel tempo, quando altri non ci saranno più. La tradizione, anche se a volte insopportabile nella sua ritualità e nella sua coercizione al gesto comune, all’atto pubblico, allo stress più insopportabile perché previsto, è la memoria che viene rivissuta, ritrasmessa e riportata ogni volta del tempo convissuto (conviviale, convenuto), del donare all’altro una presenza, la nostra presenza.
Presenza che non è quella di tutti i giorni, ma è quella tradizionale, non scontata non solo nel facile caso del parente lontano – che si ha tempo e modo di incontrare una sola vola l’anno – ma anche nel caso di padre e del figlio che finalmente, fuori dalle logiche quotidiane e dagli obblighi della “società”, hanno il tempo di stare insieme inutilmente, senza avere niente da fare, senz’altro scopo che non sia produrre ricordi di un tempo sottratto a tutto il resto. La tradizione vive là dove non c’è il tempo del lavoro, dello studio, dell’obbligo sociale e privato; la tradizione è il produrre quei ricordi partecipati, quelle storie in comune che si riraccontano e si riproducono e si passano dall’uno all’altro quando si sta insieme per stare insieme, e basta.
Questo mi fa capire perché, dalla fine dell’estate, Andrea ci ha chiesto e continua a chiederci del Natale, sempre più insistentemente, sempre più frequentemente. Perché a Natale, come durante l’estate, sa che arriverà il regalo più bello di tutti, che è anche ciò che io ricordo delle mie tradizioni: il tempo con mamma, papà, e tutti gli altri.
E’ bello quando, nel leggere pensieri e riflessioni, si auto-evocano dal di dentro sintonie non solo di pareri, ma prossimità del percepito di sè e di quanto si vive. Oltre le parole scorgere la vita. Grazie.
vero son belle tradizioni, cosi’ come e’ tradizione aspettare contando i giorni la fine delle vacanze per finalmente sottrarre i pupi dai genitori e riconsegnarli sani e salvi nel sicuro e protetto ambiente scolastico :-p
bellissimo, grazie.
Come sempre Lorenzo riesce ad elevare il pensiero ben al di sopra delle nostre teste e stupirci con riflessioni non banali.
Non so se i miei figli (che sono ancora piccolini) riescano davvero a pensare al dono del tempo passato insieme. Di sicuro lo vivono. In ogni caso, lo penso io. Per il momento è sufficiente
“Produrre ricordi” … questo vorrei che fosse la sintesi del nostro Natale, un mattone che insieme ad altri costruirà la casa del loro futuro.
Bellissime riflessioni.
Grazie, Lorenzo. Splendido.
Grazie per questo post! Ho vagamente intuito anch’io tutto questo ma qui viene descritto con tanta chiarezza.