Sembra molto complicato far entrare la figura paterna in una usuale rete di rapporti familiari con il cibo: è dalla madre che viene il primo nutrimento per i figli, e anche successivamente la figura deputata alla preparazione del cibo è quella materna. Il problema è che a seguire gli stereotipi si va sempre sul sicuro – sicuramente, cioè, ci si perde qualche cosa.
Prima di tutto, come sempre quando si tratta di gesti e abitudini familiari, un papà che non cucina mai per la famiglia o anche solo per i figli perde un importante momento di comunicazione con tutti loro. Una comunicazione basata sul lavoro manuale, sulla trasformazione e produzione di qualcosa che diviene nutrimento per tutti, celebrato in un momento particolare nel quale – cosa che quotidianamente avviene sempre più di rado – ci si vede tutti insieme intorno allo stesso tavolo.
Non importa che si tratti di pappe pre svezzamento, di pastine, delle prime amatriciane tutti insieme, della pizza surgelata; ciò che conta è un’essenza rituale che nel tempo della preparazione e del consumo del cibo diviene messaggio, presenza, giudizio e riconoscimento reciproco di nutriente e nutrito – quante volte succede a un padre? Troppo poche, temo. Il fatto che il padre sia – altro stereotipo – il “produttore di reddito” principale conta poco: a parte che nei fatti ciò è sempre meno vero, per un bambino l’azione astratta del denaro trasformato in cibo è decisamente meno percepibile e sensibilmente importante della visione di un genitore indaffarato, magari sporco ma infine soddisfatto di porgergli qualcosa con cui nutrirsi.
Ciò che viene comunicato nella preparazione del cibo per un figlio è una serie di elementi fondamentali del rapporto, credo, che non possono essere accantonati da un padre solo per appartenenza a ruoli consolidati da valori del tutto esterni ai veri rapporti familiari. Soddisfare un bisogno elementare, “perdere tempo” nel soddisfarlo, porgere il cibo, ricevere gratitudine e soddisfazione reciproca, possono essere momenti condensati nel veloce panino alla Nutella pomeridiano oppure esibiti ad arte come nella domenicale “pasta alla Geronimo Stilton” (un esempio personale, spero me ne scusiate). Le trovo comunque parti di una comunicazione non linguistica indispensabile tra padri e figli.
Educare a mangiare è anche questo, cioè partecipare del momento comune della preparazione e del consumo di un pasto familiare. Il mio piccolo Andrea è ormai l’incaricato ufficiale per la rottura delle uova per la frittata e per la distribuzione del parmigiano sulla pasta; e questa abitudine è trapassata nel suo quotidiano anche fuori di casa, quando vuole usare all’asilo anche lui la cucina giocattolo a disposizione di tutti, rompendo l’abitudine di vedere quel gioco ad uso esclusivo delle “femminucce” della classe (altro stereotipo sconfitto con semplicità e amore, visto?).
Ho trovato anche straordinariamente istruttivo – per me come per i miei figli – il momento nel quale abbiamo deciso di mangiare tutti le stesse cose. E’ stato anche in qual caso Andrea il piccolo rivoluzionario, quando per primo decise, durante un pranzo, di lasciar perdere la sua pur buona pastina al prosciutto per la carbonara di mia moglie e mia. Provate a dargli torto!
Mangiare la stessa cosa può essere intesa come un ingresso, per i bambini, in una fase di pari dignità – almeno a tavola – con i genitori; ed è anche l’inizio, per questi ultimi, degli esami da parte della prole, che adesso può proporre i suoi gusti e i suoi desideri alla discussione sulla scelta e sulla quantità del cibo. E’ un primo affacciarsi a quella particolare forma di autorità regolamentata che è il rapporto familiare, giocando una nuova partita di potere sulla tavola da imbandire.
Sì, la tavola apparecchiata è anche – quale genitore non lo sa? – uno degli scenari preferiti per i giochi di potere familiari. I bambini percepiscono perfettamente che in quel campo di battaglia possono fare leva sulla preoccupazione genitoriale per la loro alimentazione; così da trattare fino allo sfinimento (a volte di tutti gli astanti) premi o punizioni anche solo immaginari pur di soddisfare le reciproche richieste. Ecco che la verdura ingerita a forza diverrà più tardi una mezz’ora in più di videogiochi, o che il primo piatto finito si trasformerà nell’acquisto della cianfrusaglia vista ieri, passeggiando. Metafore (e neanche tanto) di un gioco diplomatico nel quale il padre soprattutto – abituato spesso per pigrizia ad essere solo l’autorizzatore, o il confermatore del parere altrui – dovrebbe impegnarsi in prima persona per trarne l’importantissimo piacere di essere più coinvolto nelle schermaglie affettive dei propri figli. Attraverso il mangiare, infatti, si possono scoprire anche nuovi terreni di complicità. “Premiare” con qualche bella schifezza (il fast food, i dolci) un comportamento dei propri figli può essere una piccola trasgressione che porta a nuovi livelli di maturità il rapporto con loro. E con se stessi.
In questo come in altri momenti legati al mangiare si può parlare in una maniera più natuale e spontanea, generalmente impedita da formalità o severità tipiche del momento che inizia con “figlio mio ti devo parlare”. Tra un boccone e l’altro la parola è complice, la si può passare con più disinvoltura, ha il gusto del momento esclusivo, rituale e piacevole della fame placata, della golosità soddisfatta. Un piacere che, come tanti altri, può essere l’inizio e lo sviluppo di una reciproca migliore comprensione anche tra papà e figli.
Vogliamo stereotipare? Stereotipiamo!
Alzi la mano quel papà che ha preparato la carbonara utilizzando meno di quattro piatti e tre forchette.
A parte il Gasp, ovviamente.
PS: a parte le battute, credo anche io (o forse lo voglio sperare) che nei limiti della disponibilità di tempo -che oramai è trasversalte- non esista più la suddivisione netta in cucina. Soprattutto voglio sperare che entrambi i genitori comprendano quanto sia determinante la comunicazione mentre si cucina e mentre si mangia.
Le ricette si trovano ovunque, e quindi per saper distinguerle bisogna capire bene differenze e storie delle preparazioni.
Consiglio quindi di leggersi
http://it.wikipedia.org/wiki/Amatriciana
per una, e
http://it.wikipedia.org/wiki/Pasta_alla_carbonara
per l’altra 🙂
Si, ma la ricetta dell’ amatriciana dove sta?
Purtroppo mi rendo conto di far parte ancora di una minoranza ma in casa nostra ci siamo sempre occupati insieme dei pasti di nostra figlia. Dalla preparazione al pasto vero e proprio.
Cerchiamo sempre di stare al tavolo insieme, mangiando le stesse cose. Come per tante altre cose, i bambini imparano per imitazione e quindi mangiare insieme è anche un modo per far provare gusti nuovi. All’inizio una pietanza sembrava gustosa per il solo fatto di essere nel piatto di mamma e babbo.
Inoltre, anche pensando a quando mia figlia sarà più grande, abbiamo escluso la tv in cucina, anche a scapito del tg, perché riteniamo che sia un momento da sfruttare per favorire il dialogo di quello che è successo nella giornata. Anche perché in effetti tutti e 3 stiamo fuori tutta la giornata, chi a lavoro e chi al nido.
A me piace questo momento perché trovo che si crei molta intimità. Alcune volte mia moglie ed io ci scambiamo i posti a tavola per fare in modo che nostra figlia ci avesse a turno vicino.
Penso proprio che i padri abbiano davanti una prateria sconfinata di spazi da occupare nel rapporto con i figli, ed il pasto sia uno di questi.
Mi viene da sorridere alcune volte perché non vengo creduto quando dico che mi fa piacere fare certe cose e non le faccio perché devo. Peccato, perché c’è una differenza abissale, specialmente quando di parla di rapporti con le persone, tra fare qualcosa perché ci piace o perché si deve.
Grazie mi fai sentire meno in colpa perche’ la piccola cena spesso col papa’. Poi quando arrivo io spesso mangiamo tutti insieme. Cosi lei ha prima pastinaa/raviolino etc e poi assaggi della ns cena (purtroppo con gli orari dell’asilo non tira fino alle 7 e 30, quando rientro io).
Bravi papa’ moderni!
E bella l’idea della carbonara, mi hai dato una buona idea per la cena! Chissa’ come viene coi piccolini!
Bravo, come sempre.
Permettimi una considerazione personale: credo che un tempo al padre fosse concesso di non entrare in queste dinamiche perchè era quello che portava a casa la pagnotta. In qualche modo trasformava il proprio lavoro in sostentamento ed era, in ogni caso un lavoro che aveva a che fare con la manualità. Ora sta cadendo tutto: il lavoro non è più manuale, quindi il padre non è uno che “sa fare” (non riesco a spiegare ai miei figli che lavoro faccio, ad esempio). La madre a volte guadagna di più (nel mio caso quasi il doppio, per dire).
Poi, scusa, mi pare che ci siamo capiti: é un momento che può essere un delirio collettivo ma che, se ci prendi mano, è proprio una gran figata. Peccato perderselo… 😉
Da noi il passaggio di Lorenzetto al “nostro” cibo è stato con pasta pesto & zola.. Voglio dire: vuoi mettere?
Ed è stato il padre a proporla.
Mangiare TUTTI insieme e TUTTI le stesse pietanze è una delle cose a cui tengo di più.
Mi piace ciò che dici. Bravo.
Un buon post: semplice, gustoso, spontaneo e sicuramente con un suo perchè. Esattamente come la carbonara.
Daje Lorè!!! 🙂
“Tra un boccone e l’altro la parola è complice”, niente di più vero. Complimenti Lorenzo, in maniera delicata e naturale hai saputo trasmettere molto. E bravo Andrea che con la sua spontaneità ha dato il via a una nuova “era” a tavola 😉
Hola per Lorenzo. E per la carbonara, ovviamente, che a casa nostra si chiama “la pasta con la carbonata”.
Sono sempre più convinto che il tempo dei padri distaccati, lontani, che non fanno nulla in casa ecc. stia tramontando. veloce come la mutazione del mondo almeno nelle zone dove il 60/70% delle donne lavorano ormai certi fenomeni sono superati. Va da sè che tocco questo tasto perchè in casa nostra la mamma e la cucina praticamente non si conoscono… per il resto annoto un’osservazione: lancio la sfida tra “educare a mangiare” e “mangiare in modo educato”… e W la carbonara!