Faccio cose, vedo gente.

Cominciamo con un giochino, che sembra non c’entri nulla, ma invece si. Rispondete a questo quesito:

Se doveste descrivere la vostra vita con una parola, in una metafora, che parola usereste?

Annotatevi la risposta ora (non barate eh?), poi ne riparliamo sotto.

Dunque. Mi torna in mente un’occasionale conversazione on-line tempo fa, credo su Facebook ma poteva essere qualunque cosa, un blog, i commenti di un giornale, sono sicura ci siete capitate anche voi. La struttura della conversazione è prototipica, ed è la seguente.

  1. Situazione di partenza. Qualcuno riferisce una notizia riguardante una mamma che ha successo in qualche campo X o Y: può essere una scienziata, una nuova figura politica, una scrittrice, una pilota, una sportiva, fate voi. Tipicamente il pezzo ha cura di informarci anche che la tizia in questione riesce con successo a conciliare la sua vita mirabolante con l’essere mamma.
  2. La prima reazione fra i commenti è in generale un’ovazione da stadio: evviva, e ma è vero, e ma si, e perché le mamme non ce la possono fare? Osanna, osanna, osanna!
  3. Poi, quando la prima onda di tripudio ha un attimo di quiete, entra un commento, quasi in sordina, sul tipo: eh, si, ma che vuol dire in questo caso che è una brava mamma? Che ha i figli pettinati e ordinati? Che li manda alle scuole private?
  4. Il germe del dubbio si insinua. Al coro dei commenti osannanti, si aggiungono a poco a poco i primi commenti scettici: beh, se ci riesce, è sicuramente perché ci staranno asili/contributi/nonne/fate-turchine/varie-ed-eventuali ad aiutarla!
  5. A questo punto la critica è sdoganata, si aggiungono commenti più o meno sarcastici, finché finalmente, e apertamente, ecco il commento classico che fa immancabilmente la sua comparsa: eh, ma con i figli quanto volete che ci stia?
  6. A questo punto la notizia viene bollata con soddisfazione dalla compagnia come irrilevante e accantonata: se la mamma ci riesce in questo modo, allora non vale, allora non è un esempio calzante, non è sicuramente una role model.

Allora, quello che questo post non vuole assolutissimamente fare è ravanare nella annosa e francamente sterile competizione (aha! ho anche centrato il tema del mese!) fra mamme a casa e mamme che lavorano. L’elegia del sacrificio, anzi del sacrifiZio, che la mamma che si ritiene tale deve fare in nome dei figli. Per carità, allontanate da me questo calice.

Invece.

Il mio problema con la situazione qui sopra è l’uso eccessivo di una “storia”. La mamma ideale, la donna in carriera, i figli trascurati, sono tutti personaggi prototipici di storie prototipiche.

Sentivo giorni fa uno di quei mini-seminari on-line della TED su quanto gli esseri umani sono conquistati dall’idea della “storia”. È nella nostra natura pensare in termini di storie, le storie sono facili da capire, convogliano bene i messaggi, formano la base delle nostre interazioni sociali, la narrazione è parte di noi, siamo programmati per reagire alle storie ed esserne affascinati, e per usarle quando parliamo di noi o di cosa succede, o per interpretare quello che veniamo a conoscere.

Eppure, le storie ingannano. Semplicemente perché, sosteneva il relatore, Tyler Cowen, un economista, le storie sono meccanismi di filtraggio: eliminano i dettagli, e si concentrano su un aspetto in fondo minimo della vicenda, quello che appunto rientra nel copione della storia che (ci) stiamo raccontando.

Questo non sarebbe un grosso problema, se non fosse che noi tendiamo a raccontarci sempre la stessa storia.

Ad esempio, il classico canovaccio “bene contro male”, buoni contro cattivi, lo usiamo e abusiamo in grosse quantità. Non necessariamente per dire che i buoni siamo noi, ma proprio come modo narrante: ci sono i protagonisti, e ci sono “gli altri”. Ci siamo noi, e ci sono “gli altri”. Il relatore suggeriva come regola di condotta che dobbiamo forzarci a pensare che, ogni volta che parliamo in termini di buoni contro cattivi, perdiamo 10 punti del nostro QI. Se smettiamo di pensare in questi termini, diceva, diventeremo più acuti più in fretta. È per questo che il magnifico post di Silvia sulle mamme del parco è un tale capolavoro (Silvia guadagna almeno 100 punti!) perché scardina questa storia dalle fondamenta.

Un altro esempio di storia? “La rinascita”. Prima, il protagonista, noi, eravamo così, ma ora siamo cosà, grazie a questa cosa (libro, evento, incontro) che ci ha cambiato la vita. Come per magia. Già. Ma c’è un dettaglio non trascurabile, ossia che, visto che le nostre sono vite reali e non “storie”, e sono complesse, mentre le storie sono semplici, tipicamente non riusciamo a calzare la storia coerentemente a tutte le situazioni. Quindi, ogni volta che qualche evento esterno mina, o contesta, l’importanza della “cosa” che ci ha fatto rinascere, ci mettiamo sulla difensiva, diventando spesso incoerenti pur di difendere le nostre scelte. Ricordate quello che mi affligge sempre, il Dèmone tre? Ecco quello.

Oppure: “la linea dura”. Le cose non funzionano, bisogna usare la linea dura. Abbasta con le suocere. Abbasta con i politici. Abbasta con i giornali. Abbasta con le mamme del parco. Chi non lavora non mangia. Se nessuno mi saluta non saluto neanche io. E via di generalizzazioni. E di tagli draconiani. È un modo di pensare pigro, che, per adagiarsi sulla storia, perde di vista la complessità della situazione, perché pensare in termini di dettagli è maledettamente complicato.

Ma torniamo alla domanda all’inizio: la metafora della vita. Cosa avete risposto?

In un sondaggio menzionato nel seminario di cui sopra, le risposte sono state praticamente tutte in termini di storie. La maggioranza (più del 50%) delle persone ha detto che la vita è un viaggio. Intorno al 10% ha detto che la vita è una lotta. A seguire, un romanzo. Una gara. Una pièce teatrale.

Cowen osservava che in pochissimi hanno detto che la vita è… un casino. Si sorprendeva, perché secondo lui quella era la risposta più azzeccata, e non nel senso negativo del termine. Il caos può essere liberatorio, energizzante, creativo. Nota: mi chiedo io invece quante mamme erano nel campione, perché sinceramente questa è la risposta che avrei dato io, e probabilmente non sono la sola, a giudicare dal successo di #scusaildisordine 🙂

Eppure proprio il successo di #scusaildisordine mi ha fatto pensare. Se ce la ripetiamo troppo spesso, siamo sicuri che ancora una volta questa visione originale del mondo non ci diventi una storia? Una storia diversa, una storia di vite pasticciate, una storia di mamme non convenzionali, ma pur sempre un copione? A volte, devo dire, i blog mammeschi mi lasciano un pochetto questo dubbio, questo retrogusto: che nel tentativo di opporsi alle mamme del parco (che, comunque, abbiamo stabilito, non esistono, giusto?), favoriscano poi altri atteggiamenti collettivi, che ci rinforziamo a vicenda, e che però non fanno che creare l’ennesimo stereotipo: se le mamme non convenzionali sono tante (magari tantissime, visti i commenti “anche io!” a molti post) allora non sono/siamo in fondo convenzionali, in un altro modo? In fondo ci stiamo raccontando un’altra storia di “noi e gli altri”, buoni contro i cattivi: 10 punti in meno!

Cowen diceva che ogni volta che sentiamo delle storie troppo “facili”, troppo seducenti, quelle che abbracciamo con troppa facilità, quelle che ci rendono troppo contenti, dobbiamo insospettirci (di noi stessi intendo, o meglio della storia, non di chi racconta). Dobbiamo, in un certo senso, cercare di essere più a nostro agio con il disordine mentale, con il caos. E con l’essere agnostici: avere più ambiti e contesti verso i quali decidiamo di non voler prendere posizioni, che non significa disinteressarsi, ma provare a vedere la complessità della realtà, invece dello stereotipo. Essere agnostici è difficilissimo, eh? Uno crede di esser “aperto mentalmente” ma poi ci casca come un merluzzo, a guardare solo da un lato, il lato che piace, guarda un po’.

Comunque, tornando a noi, se entriamo in questo paradigma, e siamo a nostro agio con il caos e l’agnosticismo, allora una situazione come quella della conversazione sopra assume un altro tono: se non dobbiamo incasellarla in una storia (“come farà quella tizia a fare questo o quello?”) una storia che necessariamente deve essere mediata da come la vita la viviamo noi, allora diventa facile concepire che esista un mondo possibile in cui la pilota fa anche la mamma, o la mamma fa anche la pilota, e tutto funziona alla grande in un modo che, attenzione, non ci peritiamo di investigare, visto che è futile sperare di poter cogliere tutti gli intricati dettagli che fanno in modo che quella vita sia un successo. Ci sono tantissimi, infiniti, punti di equilibrio, tutti raggiunti mettendo sui piatti della bilancia tantissimi, infiniti, microscopici pesi che alla fine si compensano. Come si fa a spiegarli tutti? Per analogia, immaginate di dover spiegare ad un alieno, che non sa nulla della condizione umana, la vostra vita: ci riuscireste in poche parole, in una storia? Probabilmente no. Io no ad esempio. E diventa anche irrilevante concentrarsi su uno solo di quei pesettini microscopici, e dire, questo conta! Questo devi guardare!

Insomma, proviamoci, a fare a meno delle storie ogni tanto, io me lo prendo come proposito per il nuovo anno. O, se proprio storie devono essere, almeno creiamoci un portfolio di storie diverse, tanto per restare elastici, e usiamole a rotazione!

Prova a leggere anche:

Previous

Scusa il disordine

Eco-decluttering in cameretta

Next

17 thoughts on “Faccio cose, vedo gente.”

Leave a Reply to Uniformi o uniformati? A scuola in divisa | genitoricrescono.com Cancel reply