Est modus in rebus, ma a volte non te ne accorgi

true-romanceQuesto racconto è un regalo prezioso che ci è stato fatto.
E’ una storia, di parecchi anni fa, occhio e croce una ventina. Però vent’anni non bastano a dimenticare certe sensazioni, servono solo a trovare i nomi giusti per quello che si è vissuto.
L’autrice di questo post, proprietaria di questa storia intima, ha voluto regalarcela per dare una base concreta al mio post “Le norme sulla violenza sessuale spiegate ai ragazzi“. Per questo la ringrazio. Perché c’è un nodo centrale nella questione: il consenso di due persone. A quattordici, sedici, diciotto anni rischi di non avere le risorse per capire che il consenso dell’altro è “sacro”. Non è una giustificazione: bisogna imparare a pronunciare la parola stupro, quando serve. Non è un tabù.
Però educare i ragazzi significa educare chi potrebbe essere vittima e chi potrebbe essere carnefice. Educare a cosa? A comprendere parole e segnali, ad accettare sempre un no, senza limiti di tempo o situazione, a dire no come diritto, a dire sì come diritto e al diritto di dirlo in modo esplicito.

Una notte ho avuto quella che chiamano extra-bodily experience: ero nel bagnetto della casa di studenti in cui abitavo, seduta sul water e contemporaneamente mi vedevo dal di fuori, come se fossi in piedi appoggiata al termosifone all’angolo, e contemporaneamente mi vedevo dentro, ma anche dall’ alto, e vedevo anche l’ interno del water, che era completamente ricoperto del mio sangue, una roba impressionante. Per dire, manco le mestruazioni più pesanti mi avevano abituata a una cosa del genere.

Poi mi sono fatta la doccia e con l’accappatoio umido addosso sono tornata in camera, ho tolto di dosso a W. che era rimasto chiuso fuori casa e stava dormendo su un materasso in terra il piumino, gli ho dato la coperta leggera, mi sono avvolta nel piumino, mi sono addormentata come un sasso e la mattina mi sono svegliata perfettamente riposata, e non avevo più freddo.

Il giorno dopo:
“Ehi, ma che hai oggi, non hai detto niente”
“Mwah”.
Gli amici fraterni perplessi.

Il pomeriggio, con W. che mi guarda interrogativo:
“Ieri con G. avete poi tardato di sopra? Io mi sono addormentato”.
“Si”.

La sera dopo:
“Ehm, comunque ti dovevo dire una cosa: che se ne è andata anche l’ ultima vergine di questa casa”.
“Ma nooo, davvero, che bello”. Abbraccio dall’amica coinquilina grande. “Ma quindi tu e W. vi siete rimessi insieme?”
Imbarazzo.
“Hmm, no, veramente è stato G.”.
Attimo di perplessità dell’amica grande, G è l’amico simpaticone e genialoide, il fregno buffo, oggi lo sospetteremmo di un leggero ADHD, un tesoro, ma andarci a letto? Il giorno prima che parte militare? Le vie dei ventenni sono infinite. Poi si fa una risata clamorosa, perché l’idea di G. in effetti è troppo buffa. Ridicola, praticamente.

Un mese dopo:
“Signora, non so neanche come dirglielo, sono un po’ depressa, perché vede, sono andata a letto con uno di cui non mi importa niente e adesso mi sento una merda”.
Alla mamma della mia migliore amica riesco a dire quasi tutto. Non solo ci somigliamo molto di carattere, ma lei è proprio il tipo con cui tutti si confidano. Alla mia amica non sono riuscita a dire niente, ne temo il giudizio.
La vedo che si rilassa:
“Tesoro mio, ma cosa vuoi che sia. Mica vuol dire che vai con tutti. Cioè, lo capisco che non ci stai bene, ma per un attimo, avevi una faccia, mi stavo immaginando il peggio, che avessi abortito o cose del genere”.

A mia madre non l’ho detto. È piena stagione turistica, lavoriamo tutti 18 ore al giorno e siamo un filo fuori dalla grazia di dio, io intanto preparo anche tre esami per settembre e un pomeriggio tutto mi sembra troppo. Mi chiudo in bagno e fingo di volermi tagliare con una lametta, ma non ci riesco, farmi del male fisicamente proprio non è nelle mie corde.

Allora vado al mobile bar, mi tappo il naso perché a me i liquori fanno schifo, bevo un sorso da ogni bottiglia, perché ho sentito vagamente dire che quando mischi ti ubriachi prima; l’ultimo è il rum. Non ho più sopportato il rum per almeno vent’ anni, neanche un goccio nei cioccolatini o nei dolci.

Poi mi immergo nella vasca da bagno fino al collo e tra l’ acqua e l’ alcol mi ondeggia tutto. Mi trova lì mia madre, a cui con fare melodrammatico mostro quel mezzo graffio sul polso che non sono manco riuscita a farmi. Lei senza dire niente, mi tira fuori, mi riempie un piatto, si siede con me in cucina e mi guarda mangiare, per assorbire l’alcol. In silenzio.

La sera, dopo una dormita, mi sento una cretina, tiro fuori timidamente la cosa con mio padre, che mi guarda e con una voce bassa che non gli riconosco e non ha nulla degli urlacci delle sue sfuriate storiche, mi dice che è stata una cosa vergognosa quella che ho fatto a mia madre, che non ho idea di come l’ha vista lui, bianca come un cencio e tremante e in lacrime dopo che mi ha messa a dormire, e che sono abbastanza grande da parlare chiaro se ho un problema invece di fare l’ isterica, come tutte le femmine che non scopano.

Io scappo a piangere nell’armadio a muro perché quest’ultima frase mi sembra proprio to add insult to injury, lui mi segue, mi abbraccia, si scusa per quello che ha detto “ma tu lo sai com’è quando mi scappano le carriole” e dice che lo capisce che stiamo lavorando troppo, fa caldo e che siamo tutti troppo stanchi, e mi danno alcune ore in più per studiare e riposarmi.

Un anno dopo, a casa di amici:
“Ehi, ma lo sai che di là c’ è G. che si è congedato? Vieni a salutarlo”.

Dieci minuti dopo, un attimo che siamo soli:
“Senti, ma cosa hai fatto quest’ anno? Lo sai che mi sei mancata tantissimo, ti ho sognata sempre. E io, un pochino, ti sono mancato? Mi hai pensato?”

Che dire, pensare ci ho pensato. Ma resto totalmente senza fiato. Riesco solo a dirmi: qui uno di noi due è pazzo, ma non credo di esserlo io. E non riesco ancora a parlare.
“Allora, che hai fatto quest’anno?”
“Sono andata all’AIED dalla psicologa”.
“Ma è successo qualcosa? Stai bene?” preoccupato e premuroso.

Io sono ancora senza parole. Riesco solo a guardarlo in faccia e dire:
“Tu”.

E li mi crolla davanti agli occhi: si ammoscia tutto, ha la faccia come se gli invecchiasse in fast forward davanti ai miei occhi, sta quasi per mettersi a piangere.

Si, perché nel frattempo io ho avuto un anno per pensarci sopra, quello che mi è mancato tantissimo, quella notte che lui e W. sono rimasti a dormire da noi e io sono salita a portargli una coperta, e ci siamo messi a chiacchierare e piangerci addosso, è stato un momento per parlarne, dopo.

Io gli piangevo sulla spalla a G. perché mi ero appena lasciata con W., a cui piacevo moltissimo ma era nella fase: “amo un’altra e penso solo a lei, ma intanto mi vai bene anche tu”, e io ero nella fase: “se continuiamo a vederci finiamo a letto e sinceramente penso di meritarmi qualcosa di meglio come primo ragazzo, di uno che ha in mente un’altra”.

Ci eravamo lasciati da amicissimi e anche se non lo vedo da 25 anni so che W. chiede sempre di me al mio amico d’infanzia nella sua città. Però quella sera non è che fossi contenta di averlo lasciato per forza di cose, io avrei voluto che fosse innamorato di me. Ma tutto nella vita non si può avere. Sicuramente non a vent’anni, noi ragazzi di famiglie protettive che per la prima volta vivono da soli e stanno cercando di capire di chi si potrebbero innamorare e non sempre ci azzeccano. Voglio dire che l’ altra coinquilina stava con uno che anni dopo le ha spezzato un braccio e la mandava regolarmente al pronto soccorso. E lo amava troppo per lasciarlo. Chi sono io per stabilire chi vorrei che si innamorasse di me?

Quella sera invece G. mi piangeva sulla spalla perché doveva interrompere il conservatorio, andare militare, e poi tornare a vivere dai suoi “e a me i miei mi tirano scemo”. E poi erano le due, mi sono addormentata mentre chiacchieravamo, mi sono svegliata perché ho sentito come un ‘crac’ nella carne, ho proprio sentito il rumore e basta, e con un braccio me lo sono scostata di dosso, sono corsa in bagno, e mentre facevo mente locale e la doccia, lui è andato via e non sono mai riuscita a parlarci e cercare di capire come e perché fosse successo tutto.

E la cosa che mi ha lasciato più incerta e spaventata di tutto, era non averla mai vista arrivare questa cosa. La paura di non essere in grado di valutare la gente e mettermi nei guai di nuovo. O come dissi alla psicologa dell’ AIED:
“Io delle volte ho paura di essere la vittima ideale di uno stupratore”.
“È interessante questo che dici, come mai lo pensi?”

Perché lo penso? Perché sono timidissima, vergine, imbranata e fiduciosa, e sono stata cresciuta da un padre talmente terrorizzato all’ idea che mi potessero fare del male, che ha passato la mia adolescenza a mettermi in guardia dai maschi e soprattutto dai maschi in gruppo? E io da un lato sono cresciuta diffidente nei confronti dei maschi e non facevo avvicinare troppo nessuno, dall’altro gli dovevo dimostrare che no, i tempi sono cambiati, i ragazzi che conosco sono gentili e civilizzati, e quindi rimanevo a dormire dai miei amici, andavo in macchina con semisconosciuti di notte al bosco e in generale mi mettevo in situazioni che a lui avrebbero fatto venire i brividi, perché quando hai vent’anni e devi dimostrare a tuo padre che lui è un idiota sessista e retrogrado, rischi anche di farti del male senza accorgertene.

Anni dopo un saggio, molto controverso, di Camille Paglia, dava ragione a mio padre sui pericoli dell’ingenuità delle giovani universitarie da famiglie protettive, rispetto alla valutazione del testosterone dei propri compagni di studi e i messaggi sbagliati. E a quel punto le davo ragione anch’io.

Poi vabbè, con la psicologa giunsi alla conclusione che no, lui non era un mostro nei panni dell’agnello che io non ero in grado di riconoscere, ma un altro ragazzo giovane, imbranato, forse vergine, e che oltretutto aveva passato un anno a cercare di conoscermi dopo avermi incrociata a mensa, e che nel momento in cui ci era riuscito, trac, io mi sono messa con il suo amico. E che dopo aver lasciato il suo amico l’ho cercato per piangergli addosso e forse lì non si era capito bene cosa volevamo l’uno dall’altra. Perché quando uno è giovane e molto ripiegato su se stesso e i suoi problemi, e la sua emancipazione dai genitori e dai loro modelli di socializzazione, magari i segnali dell’ altro non li coglie o li interpreta male.

Il che non toglie che io per anni mi sono rifiutata di dare a questo stupro il suo nome, per paura di entrare così in una mentalità da vittima, che sono sicura non mi avrebbe fatto bene. Alla mia amica non l’ho detto perché in quel momento le avrei detto la palla che mi serviva in quel momento, cioè che IO avevo fatto una cosa sbagliata, non che l’avevano fatta a me. E a lei raccontare storie non mi andava. Mi serviva poter credere che le mie azioni hanno conseguenze, perché a vent’ anni forse ancora non ce la fai a credere che si, shit happens, e ti può capitare senza che tu abbia fatto niente.

Resta il fatto che ho sempre fatto fatica a parlarne, se non a altre vittime di stupro, che chissà come, in qualche modo ci annusiamo. Resta il fatto che con lui non mi sono mai veramente chiarita e non sono mai riuscita a chiedergli cosa avesse in testa, e cosa stesse pensando lui, per capire meglio dove avevamo sbagliato.

Resta il fatto che mi fa ancora rabbia perché lui era un caro amico che sembravamo gemelli siamesi, magri, allampanati, con le braccia e le gambe da tutte le parti, lo stesso senso della battuta che una iniziava e l’ altro finiva, logorroici, mercuriali. E a me gli uomini che mi fanno ridere, mi hanno sempre fatto molto più sangue di quelli che mi fanno piangere. O che pensano a un’altra.

Insomma, se io non mi fossi fissata col suo amico, che è un caro ragazzo, ma all’epoca era più il fascino da artista tormentato che le sue belle qualità a distrarmi dal fatto che eravamo una coppia improbabile, a darci tempo e capire i segnali, finiva magari che davvero ci potevamo spulzellare a vicenda con grande soddisfazione reciproca. E non nel modo inutile e doloroso in cui è successo.

Insomma, si capisce che dopo 20 anni, un matrimonio e i figli, a me questa cosa ancora mi rode?

“Ne avevamo parlato, si. Molti anni fa mi avevi raccontato qualche pezzo, manco mi ricordo più i nomi ormai. Poi ogni tanto hai aggiunto dei tasselli. L’unica cosa che mi è dispiaciuta è sempre stato il fatto che tu abbia temuto il mio giudizio. Ho cercato di fare tesoro di ciò, nel prosieguo della mia esistenza. Non mi ricordo se te l’ho mai detto. Almeno però ti sei confidata con mia madre. Questo è importante, a posteriori.”

(foto credits @ True Romance )

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Tabù personali nell’educazione sessuale

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13 thoughts on “<em>Est modus in rebus</em>, ma a volte non te ne accorgi”

  1. Ho da poco scoperto che la mia amica subisce violenza fisica e psicologica dal marito. Questa scoperta mi ha cambiato e questo racconto non è tanto diverso da questa situazione. Perchè noi donne abbiamo così tanta paura del giudizio che diamo a noi stesse? Perchè ci sentiamo complici di queste violenze e non vittime? Insegno alle mie figlie il rispetto per se stesse e a pretendere lo stesso rispetto dagli altri, sempre.
    Questo racconto mi ha davvero spaventato perchè potrebbe capitare a chiunque e lei, lei è davvero una grande che è riuscita a parlarne. Grazie a te io ne parlerò con le mie figlie.

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  2. “al massimo l’avrei svegliata per chiederle se voleva farlo con me ”

    richiesta che specie se si era già in confidenza si può anche fare con un semplice bacio per vedere se è ricambiato, si decide insieme se andare avanti, se superare eventuali pudori e timori (specie se è la prima volta) con o senza bisogno di parole. L’importante è che ci sia il consenso. Scusate se mi dilungo

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  3. “giovane, imbranato, forse vergine” potrebbe essere la mia descrizione e vi assicuro che in quella situazione al massimo l’avrei svegliata per chiederle se voleva farlo con me (cosciente che avrebbe potuto dirmi di no e pronto ad accettarlo) o più probabilmente l’avrei lasciata dormire e non c’entra nulla il testosterone: gli ormoni, le pulsioni, i desideri ce li hanno tutti/e e ce li ho anch’io, è normale, ma queste cose non ti obbligano a fregartene del consenso di una donna, se lo fai sei responsabile

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  4. Silvia, a vent’anni un ragazzo è abbastanza grande da capire quando il consenso (verbale o no) c’è e quando non c’è e in questo caso non c’era lui lo sapeva e ha deciso di ignorarlo e fare i suoi comodi. E non c’è “cantonata” che possa spiegare. Tutti abbiamo avuto vent’anni, c’è chi è stato egocentrico, chi lo è ancora e tutti o quasi abbiamo fatto cavolate di cui oggi più o meno ci vergogniamo. Ma la violenza sessuale non è una “cantonata” (e non è tantomeno “sesso deludente”) e chi la commette sa quello che fa e sa che non è giusto pertanto è pienamente responsabile. Io la vedo così

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  5. E’ un racconto bellissimo, molto toccante, che mi ha parecchio turbato e l’ho letto almeno tre volte prima di riuscire a metabolizzare. Da madre di maschi, mi pongo le stesse domande di Deborah, ma da un altro punto di vista. E non è mai troppo presto per insegnare a un bambino il rispetto, a partire dalle parole. Ti abbraccio.

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  6. Ecco, ci giravo intorno, ma Deborah ha espresso tutto quello che pensavo, meglio di quanto potessi fare io. L’unico passaggio che mi solleva un po’ è quell’ “invecchiamento in fast forward” di G. Mi fa sperare che si sia reso conto, anche se troppo tardi, di quello che ti aveva portato via. Ti abbraccio forte.

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  7. Il tuo racconto mi ha turbata. E non tanto perchè io abbia fatto delle esperienze simili, perchè a me è andata bene e sono stata fortunata e giravo da sola di notte per strada e dormivo con i miei amici maschi e non mi è mai successo nulla. E per fortuna. Ma, come dovrei crescere mia figlia? Che messaggi dovrei darle? Ho conosciuto uomini più o meno maschilisti, ma rispettosi di un mio No, anche all’ultimo minuto. Magari rugavano, mettevano il muso, ma, diciamo così, di notte dormivo tranquilla. Quindi, la mia esperienza è positiva, anche se le difficoltà relazionali tra maschi e femmine le abbiamo vissute tutte. Però poi leggo della tua esperienza, leggo i giornali, e mi chiedo se devo metterla in guardia. E come poi? Parlo a una dello stupro di quella ragazza di Modena l’anno scorso alla madre di due maschietti in classe con mia figlia e quella, serafica, mi dice che che la ragazza se l’è andata a cercare.Che vanno alle feste con le minigonne e questi poveri maschi, quando l’istinto chiama.. Ecco, rabbrividisco al pensiero che ci siano ancora madri che controllano la lunghezze delle gonne delle figlie altrui. Ma non sono state ragazze anche loro? Che quelle madri crescano i figli maschi già arroganti con le femmine della classe, come se le femmine fossero un minus quam rispetto a loro, anche se in quel modo buffo e impacciato che hanno i bambini. Li crescono nell’orgoglio dell’appartenenza al sesso maschile. Come se potessi essere orgogliosa di essere nata coi capelli biondi, piuttosto che castani.E invece li crescono, alla fine, come bestioline, che non possono governare gli istinti, come se questa ingovernabilità li rendesse più virili. Come se già fossero edotti del fatto che un maschio, almeno qui in Italia, ( perchè di questa nazione ho esperienza, )non deve chiedere mai. Una mia amica dell’Università mi ha dato poco tempo fa la lieta novella. “Sono incinta. Va tutto bene. E per di più è maschio!” Per di più? Quando la finiremo noi femmine con quel PER DI PIU’?
    E’ sconvolgente quello che ti è successo. Perchè ti fidavi, perchè stavi dormendo, perchè era tuo amico. Perchè in un ipotetico giudizio tu non saresti stata considerata vittima, ma quella che dorme coi maschi e se la va a cercare..Ecco, se noi femmine riuscissimo a togliere quel “per di più” molte delle nostre bambine avrebbero la vita più facile. Grazie per il tuo racconto. Mi mette angoscia, ma grazie

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  8. Mi è capitato da giovane di vivere situazioni “di forza” psicologica, nell’intimità con coetanei. Mai fisica. Ma una volta in particolare, assieme a un rapporto da me non voluto e forse neanche realmente dal mio partner, si consumarono un’incomprensione e un disagio profondi vissuti da entrambi, fondati sull’incapacità mia di dire un chiaro no (a me stessa per prima cosa), e sua di accettare un possibile rifiuto, e di empatizzare col mio stato d’animo. Non ho un bel ricordo di quell’incontro, ma non fu uno stupro, e sono abbastanza certa che se fossi voluta andare via avrei avuto la possibilità materiale di farlo (sebbene fosse notte e freddo e lui dovesse riaccompagnarmi, ma ci sono i taxi; alla fine sarebbe stato uno stronzo, ma non un violentatore). Non ha lasciato segni profondi su di me. Quel che voglio dire in risposta a Silvia è che sicuramente tutta l’educazione deve essere profonda e all’affettività e certamente concordo con lei quando dice che deve riguardare maschi e femmine. Però credo, non so, che ci debba essere anche una specie di consapevolezza netta del limite da non superare, che sia perfino più importante del lavoro profondo: perché in fondo confusione ed egocentrismo in un adolescente devono poter essere perdonabili, deve poterci essere lo spazio di sbagliare con le emozioni. Ma non si deve arrivare alla violenza, e mi viene da pensare che la capacità di riconoscere quando si sta facendo violenza deve essere un obiettivo in sé dell’educazione.

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  9. Sono commossa. Tanto. Ti abraccio, vi abbraccio. E mi rammarico di come noi donne, così profonde, così capaci di comunicare, facciamo invece fatica a dirci certe cose. Quindi grazie, da donna e da mamma di due piccole donne

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  10. Lula, quello è il punto, secondo me. Manca l’opportunità dell’educazione: lo hai detto benissimo.
    Credo però che non sia un problema limitato all’educazione maschile. La protagonista del racconto ha caricato su di sé per anni la responsabilità dell’accaduto: si sentiva la vittima ideale per uno stupro, ma nello stesso tempo non voleva chiamare quello subito col proprio nome. Perché, perché la vittima dello stupro è vittima di se stessa, in qualche modo, perché non è tramontata la cultura che la vuole parte della colpa.
    Per far pace con questa storia, è dovuta arrivare finalmente a chiamarlo col suo nome. Pur ammettendo che quello lì non era un violento, ma solo un ragazzo del tutto ineducato alla gestione dei suoi rapporti personali, ineducato alla relazione, ineducato alla comprensione del linguaggio dei gesti.
    Non è una giustificazione. Però è una spiegazione dell’accaduto.
    Non voleva stuprare, pensava di avere un consenso. Fondato su cosa? Sul suo egocentrismo, sull’essere ripiegato solo su se stesso. A vent’anni forse è normale essere il centro del proprio mondo: ma per questo un ventenne o meno che ventenne può prendere delle cantonate clamorose.
    Cantonate che devono fondare una responsabilità. Perché non è giusto chiamare “equivoco” uno stupro.
    Allora educhiamoli prima. Maschi e femmine. Educhiamoli a rispettarsi e ad ascoltarsi, l’un l’altro.Diritti e doveri pari, su identità diverse.
    Se non ci si comprende, perché in tanti momenti della vita un uomo e una donna non si comprendono, che almeno ci si rispetti.

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  11. Quel ragazzo avrebbe avuto bisogno di qualcuno che gli spiegasse come “interpretare”, come è fatto un sì e come non è fatto (non assomiglia a un’amica che dorme), e che cosa è la violenza sessuale. Ecco cosa manca in fondo a tutto: l’opportunità di questa educazione, che i genitori e la società devono offrire ai figli maschi.

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  12. Ho due figli, uno di quasi quattro anni e una di quasi tre anni. Come madre mi trovo nella posizione ambivalente di fare capire a una testa maschile e ad una femminile che bisogna sapersi prendere cura del proprio corpo. Che il corpo e la testa vanno assieme, a volte. Che la propria intimità e’ sacra e va tutelata con le unghie. Mi piacerebbe, un giorno fare leggere questo tuo racconto ai miei figli. Ma capirebbero che non è letteratura ma vita reale? Possiamo noi genitori dare le armi psicologiche giuste ai nostri figli per potersi proteggere? Il tuo papà’ pensava di starlo facendo, con i suoi modi, col suo amore. Nel tuo racconto ci sono tanti spunti per un genitore. Grazie per aver condiviso. Un caldo abbraccio.

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