Vaccinare i figli contro il dolore

Noi genitori siamo sempre molto preoccupati dalla sofferenza dei nostri figli. Vorremmo che non provassero mai dolore, che non fossero mai tristi, che non dovessero stare male, arriviamo al punto di avere paura che piangano. E se stessimo sbagliando tutto? Se la frustrazione e il dolore fossero funzionali? Abbiamo chiesto aiuto alla nostra amica e psicologa Elena Sardo.

Foto ©Hebe Aguilera utilizzata in licenza Creative Commons
Foto ©Hebe Aguilera utilizzata in licenza Creative Commons

Viviamo in una società in cui, già da un po’ di tempo, come scrive Concita De Gregorio, “la cultura dominante e l’esempio pubblico prevedono e propagandano come obiettivo l’immortalità, l’estetica dell’eterna giovinezza, che racconta di un’etica posticcia, in cui conta solo il qui e ora e tutto il resto sono scarti da occultare”: la sofferenza, la vecchiaia e la morte sono tabù.
Il dolore è una delle paure ataviche dell’uomo: soffrire un tempo voleva dire probabilmente morire e così, nei secoli, per sfuggire alla sofferenza, siamo arrivati ad un’epoca contemporanea in cui tutta la vita dell’uomo è basata sulla fuga dal dolore: comodità, lussi, analgesici in confezione famiglia.

Il dolore sin dalla nascita

Una “scelta” alquanto paradossale, dal momento che il neonato incontra l’ambiente attraverso i cinque sensi e sperimenta, già dal parto, una serie di sensazioni fisiche dolorose, come la sensazione di cadere, provocata dalla perdita del sostegno dell’utero materno e dal peso da cui si sente schiacciato per via della gravità, la fame, la sete, il freddo, il caldo, i movimenti gastrointestinali, la dentizione: la vita autonoma dell’essere umano comincia con sensazioni spiacevoli (dolore), in contrapposizione a sensazioni positive (sazietà, calore, contenimento, pulito, rilassamento, riposo, etc.), che a causa dell’assenza di un’organizzazione psichica, producono vere e proprie angosce, che l’adulto, attraverso i rituali di accudimento e il contenimento, elabora per il neonato, dando senso a ciò che sente.
Man mano che il bambino cresce e diviene più autonomo, il dolore fisico lascia sempre più spesso il posto al dolore psichico, alla frustrazione: doversi separare dalla mamma, dover aspettare per mangiare, voler camminare ma cadere, non poter andare dove si vuole, dover sottostare alle richieste e alle regole di un contesto sempre più esteso, sperimentare la sensazione di non poter ottenere sempre e subito ciò che si vuole.

La negazione della frustrazione

Ma ecco che in questi ultimi anni si assiste ad una cultura di negazione della frustrazione, che si unisce alla cancellazione del dolore e della morte.
Il dolore nel nostro immaginario diventa subito sintomo di qualcosa, quando potrebbe essere, invece, solo una risposta del corpo ad un cambiamento, prima di adattarsi ad una nuova condizione (pensate al fare gli addominali dopo anni di vita sedentaria),. Allo stesso modo il pianto del bambino si trasforma in qualcosa di pericoloso e nocivo, perché produce alti livelli di cortisolo, quindi di stress.

In realtà per l’essere umano sofferenza e frustrazione hanno un ruolo fondamentale per la strutturazione della personalità, sono un fattore di differenziazione e di crescita; hanno il preciso compito di spingerci ad agire (autonomamente), a muoverci per cambiare le cose, per passare da una condizione spiacevole ad una di piacere o perlomeno di omeostasi.
Spesso, per l’essere umano, è una questione di quantità: piangere TROPPO per un bambino è nocivo, perché aumentano i livelli di cortisolo, ma lo stesso pianto, può essere proprio una valvola di sfogo dello stress, ovvero in presenza di alti livelli di cortisolo, il bambino e l’adulto piangono, perché piangere consente una scarica fisiologica, l’espressione di uno stato d’animo, e quindi il conseguente ripristino di livelli ormonali ottimali.

Il dolore è fisiologico

Cercare di non soffrire e di non provare frustrazione ci allontana, dunque, dalla nostra condizione umana.
Ogni apprendimento passa per la frustrazione di non riuscire a fare una determinata cosa, ma quel dolore è fisiologico ed è la molla che ci spinge a crescere! Winnicott per primo evidenziò tra i ruoli materni, quello di “dosare” la frustrazione al bambino, lasciare che il cucciolo d’uomo sperimenti in modo appropriato all’età i dolori dell’essere umani: questa è l’origine della resilienza.
La consapevolezza della nostra fragilità (fisica ed emotiva) e l’esperienza dell’aver superato e vinto frustrazione e dolore, ci abituano alla loro presenza nelle nostre vite, ci rendono capaci di stare nel malessere senza soccombere, ci fanno credere che sapremo affrontare le prove che la vita ci presenterà.
“Soffrire è così antimoderno e pochissimo apprezzato” (cit. La corsa e la sofferenza) e invece ha un ruolo fondamentale, quello di renderci sani di mente.
La gente che non invecchia, che non muore, che fugge dal dolore, la mancanza di un’educazione emotiva alla frustrazione, all’insuccesso e alla sconfitta non ci preparano ad affrontare la vita; le cronache ce lo dico: stiamo producendo una società di individui incapaci di tollerare i no (ex fidanzate uccise sono all’ordine del giorno nella cronaca nera), individui che rispondono in maniera inadeguata, in quanto esagerata e fuori misura, alle difficoltà della vita (adolescenti suicidi per una bocciatura, o peggio per un brutto voto).

“Se il vincere sempre e a tutti i costi rimane l’unica prospettiva possibile, si diventa incapaci di rialzarsi quando si perde”

(cit. “Lo zen e l’arte di far muovere i nostri figli” Speciani, Speciani, Trabucchi, tecniche Nuove edizioni)

Con l’espressione salute mentale, secondo la definizione dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si fa riferimento ad uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni.
Dal momento che queste capacità dell’individuo sono innate, ma vanno anche coltivate dai genitori, ricordiamoci di non privare i nostri figli di esperienze fondamentali, per “eccesso d’amore” o per le nostre paure: prepariamoli a tollerare le prove che dovranno affrontare nel corso della loro esistenza, perché alla frustrazione e al dolore si può essere “vaccinati”.

Elena Sardo, psicologa e psicoterapeuta

(foto ©Hebe Aguilera utilizzata in licenza creative Commons)

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1 thought on “Vaccinare i figli contro il dolore”

  1. Apprezzo molto tutto, a parte forse l’aver scelto per la prima citazione Concita De Gregorio 🙂 Cerco di riordinare i pensieri, e poi ritorno.

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