Tutti così

integrazione

Ciò che nel trattare i razzismi, specie quando si tratta di agire per i propri figli, risulta sempre più difficile del previsto, è scendere dal piano generale a quello particolare. Siamo tutti d’accordo che non bisogna essere razzisti; poi però non ci si accorge del proprio comportamento discriminante, o non si riesce a insegnare una risposta adeguata, o non si possono evitare orribili logiche di gruppo.

Mi lasciano ancora l’amaro in bocca due episodi cui ho assistito pochi mesi fa. Aver sentito un genitore bofonchiare contro il piano delle visite guidate proposto a bambini di scuola elementare, perché «sarebbe meglio non andarci alla Moschea, io credo, no?». Aver udito – rimanendo senza parole – una mamma nata nell’America Centrale dire che «tutti questi extracomunitari mi fanno proprio schifo». Eccolo il razzismo, qui vicino a me. Ah, un avviso per tutti quelli che pensano sia solo una questione di linguaggio: se mi dimostrate di pensare in un linguaggio diverso da quello che usate per parlare, comincerò a prendervi sul serio.

Sono sempre ben contento che le classi frequentate dai miei figli siano composte da bambini di origine diversa da quella italiana, sia che siano nati qui che altrove. M’importa che il contatto epidermico e quotidiano con tante diversità, lungi dall’evitare i pregiudizi che comunque s’incontrano e vengono insegnati e appresi, getti un fondo di dubbio perenne che mini le fondamenta di tante stupide generalizzazioni. Non basta, però, solo il contatto; purtroppo conta anche l’ambiente.

Lo strumento principale col quale viaggiano i razzismi – fondamentalismi, sciovinismi, sessismi, intolleranze religiose ed etniche, discriminazioni di tutti i tipi – sono sempre e ancora quegli stupidi e violenti luoghi comuni, ampiamente diffusi anche dai media, che cominciano con “Tutti i…”, “Tutte le…”, e segue aggettivo. Tutti i neri, tutti i cinesi, tutti i Down, tutti gli ebrei, tutti gli italiani, tutte le donne, tutte le bambine, tutti gli zingari, tutte le rifatte, tutti quelli di quel quartiere, tutti i musulmani, tutti quelli col SUV, tutte quelle vestite così… tutti, no? Sono sempre “tutti così”.

Perché porsi il problema di conoscere qualcuno, quando è tanto più facile giudicarlo?

E’ ebreo? E’ avaro. E’ bionda? E’ stupida. E’ cinese? Non si vuole integrare. E’ Down? Non è capace. E’ arabo? Ti dice sempre bugie. E’ slavo? Sotto sotto ci odia. E’ brasiliano? E’ sempre felice, beato lui. E’ rom? Ruba. E’ nero? Puzza, non si lava. E’ dislessico? Non s’impegna abbastanza. Abita lì? Allora è un delinquente.

Razzismo è, prima di tutto, non farsi domande e lasciare che rispondano i pregiudizi, al posto della persona che hai davanti. Essere antirazzista significa essere liberi dai condizionamenti, dalla paura, dall’ignoranza; liberi da di chi vuole tenersi un potere per non condividere una libertà. La libertà di fare domande, dialogare, conoscere, fare esperienza, comprendere, magari scoprire che le cose non stanno come te le raccontano.

«Restare umani», diceva qualcuno. Questo dico a Ivan e Andrea.

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