Il sorriso di Amina e le sue gemelle

razzismo-indianaSettembre, pomeriggio inoltrato.
La scuola non è ancora iniziata e il grande cancello verde e’ ancora chiuso, a segnare che le vacanze non sono ancora finite.
Manca una manciata di giorni e anche i piccoli di casa saranno a scuola, come il fratello che si avvia fiero verso la quarta elementare.
Sono seduta a leggere un libro, il parco e’ ancora deserto, i bambini improvvisano partite a calcio con coetanei sconosciuti che passano di li’.
Marianna mi si avvicina, non fa parte dei miei giri abituali ma la conosco da anni, ha un bambino dell’età dei miei gemelli e uno più piccolo, alla scuola materna.
“Ciao Valentina, sei pronta?”, mi chiede sorridendo.
“Per la scuola dici?”, rispondo alzando gli occhi dal giallo che sto leggendo.
“Certo, li manderai insieme al fratello?”, mi dice indicando il cancello chiuso alla mia destra.
“Si, mi piace la nostra scuola”, dico decisa.
“E a stranieri come siete messi?”, mi chiede, ed è una domanda che come al solito mi fa innervosire.
Rispondo a tono.
“Bene siamo messi, Mattia ne ha otto in classe, e sono ben contenta”.
Enfatizzo volutamente la risposta, calco le parole, mi guarda stranita.
“Stai scherzando”.
“No, affatto, e ti dico anche che ho un debole per uno di questi, un bambino dagli occhi grandi e il sorriso aperto, i capelli neri e l’aria gentile”.
E’ la verità, non c’era bisogno di dirlo ma l’ho fatto, lei sta zitta, intimidita dalle mie parole.
In quel momento vedo passare un passeggino doppio dall’aria familiare, e’ quello di Amina, una donna indiana con due gemelle di due anni e un fratello di otto, che l’anno scorso era nella classe a fianco a quella di Mattia.
Mi aveva avvicinato un giorno, il cielo era nuvoloso, aveva visto che avevo due gemelli e mi aveva chiesto dei consigli, lei era sola con il marito in Italia e non aveva nessuno a cui chiedere.
Il suo sorriso mi aveva trafitto, e tuttora quando la vedo ho un sussulto, per la dolcezza che sprigiona il suo sguardo.
Sorride sempre, saluta sempre, non passa mai di fretta facendo finta di essere di corsa, come a volte facciamo tutti.
Lei no, trova un momento lento per farti sentire importante, senza farti scappare via.
Dice il suo “ciao” e aggiunge il nome, per dare valore a chi ha di fronte, faccio lo stesso con lei ogni volta che la incontro.
Mi ha preso in simpatia, se ha dei dubbi mi chiede sempre qualcosa sulla scuola, sui giorni delle riunioni, delle feste, se posso la aiuto volentieri, mi viene naturale soffermarmi sui suoi occhi, su questo sorriso che sa di distese infinite, di mare, di ombre in lontananza.
Aveva il cruccio di non aver potuto allattare queste gemelline nate di otto mesi con cesareo d’urgenza. Non poteva permettersi di stare tutto quel tempo seduta sul divano a nutrire queste due creature troppo piccole e tanto pigre. Attaccarle era un’impresa, c’era la casa, il figlio che allora aveva sei anni da andare a prendere, i panni da lavare, la cucina da sistemare.
Ci aveva provato all’inizio, le avevano spiegato in ospedale come tirarsi il latte, quando le piccole erano ancora ricoverate in pediatria. Andava lì tutte le mattine e ascoltava le ostetriche, consegnava loro questo biberon di latte come se fosse un tesoro, guardava le gemelline mangiare e scappava via a prendere il primogenito.
Dopo un mese le aveva portate a casa e non era riuscita più.
Avevo ascoltato la sua storia quel giorno sulla panchina, parlava e sorrideva, con la sua luce negli occhi, mi ero sentita piccola come una mosca. Io che qualche mese prima avevo riempito la testa delle mie amiche con mille angosce sulla scuola, sulle maestre di Mattia, che chissà come sarebbe andata, chi avrebbe trovato, cosa ne sarebbe stato di lui e della sua esperienza alle elementari.
Seduta con lei quel pomeriggio mi ero staccata da tutto, ed ero stata sentire.
Le sue bambine erano piccole allora, una piangeva e l’altra teneva un sonaglino rosso tra le mani, avevano i suoi occhi neri e le sue fossette sulle guance.
Erano bellissime, come lei.
Anche oggi, mentre passa spingendo questo passeggino enorme, mi saluta e mi sorride.
Ricambio, vedo che indugia vedendo Marianna di fianco a me, sono io che la fermo.
“Amina, ti presento Marianna”.
“Marianna, lei è Amina, cos’è che mi stavi chiedendo prima?”
“Niente, scusate ma devo scappare”.
Marianna ci guarda, dall’alto della sua gonna a fiori rosa, fa un cenno con la mano, si gira e lentamente se ne va.

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6 thoughts on “Il sorriso di Amina e le sue gemelle”

  1. Ma davvero? Ok i pregiudizi, ma proprio così?? Nemmeno il beneficio del dubbio???
    Io vivo in Francia, a Toulon, qui ti devi chiedere quanti francesi hai in classe, non quanti stranieri 😀 la maestra della mia grande poi ha due assistenti, una nera e una con la sindrome di Down, ma non è fantastico che lei possa crescere circondata da cotanta diversità? Posso non essere in accordo con qualche modo di vita, con qualche tipo di cultura, ma anche discuterne sarebbe interessante…
    Proprio certe volte non capisco e mi suona così strano sentire parlare i francesi, popolo molto razzista eppure impermeato di multietnicità in ogni fase della sua storia…

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    • L’angolo di me stessa, ti rispondo. Faccio fatica a rimanere calma quando la prima domanda sulla scuola dei miei figli (a volte anche l’unica) sia sul numero di stranieri. Faccio fatica, davvero, chiedetemi delle maestre, dei progetti, del tipo di insegnamento, dell’affiatamento in classe, anche dell’integrazione. Ma in quel modo no, e’ come una barricata, come dividere la classe già in partenza in due schieramenti, e per me così si parte già con il piede sbagliato.

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  2. Che bel post delicato, grazie!
    Per noi quest’anno inizia la scuola pubblica, quindi sicuramente usciremo dalla realtà un po’ “protetta” dell’asilo privato e vedremo diverse realtà. Però nel nostro caso la multietnicità c’era già, perché negli anni mia figlia ha avuto in classe bambini cinesi (più romani di me a dire la verità, visto che abitano nel quartiere da anni), sudamericani, ucraini, egiziani etc. Alla fine è una questione di censo, non di colore, se sei alla scuola privata vuol dire che te lo puoi permettere, mentre alla scuola pubblica scatta l’equivalenza “extracomunitario = povero = mi ha scavalcato nelle graduatorie” (però poi non facciamo caso all’italiano che ti scavalca perché non dichiara le tasse, quello va bene!).
    Se posso permettermi solo un commento, alla domanda “come sei messa a stranieri” la risposta piccata è sicuramente legittima, ma forse enfatizzando eccessivamente che si è contenti di avere bambini stranieri ho paura che il risultato non sia di far riflettere l’altra persona (sempre che sia possibile), ma solo di farsi etichettare come “quella buonista-sinistroide con cui non parlare di certe cose”. Magari si potrebbe solo dire che se le maestre sono brave il fatto di avere bambini di diversa origine può diventare uno spunto in più per imparare.
    Io personalmente sono più preoccupata che nella classe di mia figlia siano in 22 con una maestra sola, gli stranieri non li ho contati 🙂

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    • Lorenza, hai ragione, ma è più forte di me. Non accetto che la prima e unica domanda sulla scuola sia riferita a quanti stranieri ci sono, m’innervosisce e quindi ho enfatizzato la riposta, peraltro verissima. A volte non si ha la pazienza di fare come dici tu, cosa che sicuramente avrebbe fatto riflettere l’interlocutore. Mi riprometto di farlo, Marianna e’ spesso al parco e la incontro di frequente. Grazie!

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