Otto anni

Siamo otto. Come si dice da queste parti. Dallo scorso contr.appunto ad oggi, boy-one ha compiuto otto anni, e così anche noi, come genitori. Capisco che di solito si fanno i bilanci ai numeri tondi, ma noi siamo nerds, e otto lo scriviamo 1000, più tondo di così. Poi l’otto coricato diventa infinito, quindi come simbologia direi che stiamo a posto.

Mi rendo conto che nel virtuale non parlo spesso di boy-one, anche la mia bacheca Facebook è piena di aforismi e congetture sulla vita di quel personaggio da fumetto che è boy-two, ma boy-one compare raramente, sicché in mancanza di un blog personale dove di solito tutti questi post intimisti trovano una più consona collocazione, ve lo sciroppate qui.

Boy-one ci è piombato in casa da chissà quale altro universo, a conferma del fatto che qualche modificazione genetica ci deve stare davvero. Figlio di due persone super taciturne, introverse e, a voler essere benevoli, chiuse a riccio, boy-one è l’archetipo della solarità. Dal momento in cui è venuto alla luce (si ricordano ancora le due ostetriche in sala parto che non appena lo hanno tirato fuori si sgomitavano l’un l’altra dicendo “ma hai visto che occhi che ha? Guarda le ciglia!” che io mi ero anche un attimo preoccupata, poi quando lo ho avuto addosso ho capito che intendevano) ha deciso che questo pianeta gli piace proprio, ed è ben determinato a che nessuno gli rovini la festa.

Al che uno pensa che davvero ci deve essere una Forza che coi suoi midichlorian tiene insieme l’Universo perché boy-one (sarà anche lui un Piccolo Jedi?) non si è lasciato minimamente influenzare da tutte le disturbanze nella Forza che continuava a provocare sua madre, affabulata dal lato oscuro, nei primi mesi (anni?) di PPD e terrori vari (lo sapete che la prima volta che sono uscita con lui in passeggino ero terrorizzata? Lo guidavo come se si potesse rompere ad ogni sobbalzo. Meno male che almeno il Mister è rimasto in pieno possesso delle sue facoltà mentali, e non aveva problemi a cambiarlo, fargli il bagno e via discorrendo), e dicevo rimaneva impassibile nel suo stato di perpetuo godimento galattico.

Per capire il tipo, boy-one è quello che a quattro anni, dopo aver appena imparato le stagioni, le migrazioni eccetera, uscendo di casa al mattino e notando l’albero sul vialetto pieno di uccellini ha gridato a squarciagola: “E’ autunnoooooo!!! Dovete partireeeeee!” e si è messo in macchina soddisfatto.

Boy-one è quello che si alza sempre di buon’umore, prestissimo, con la fregola di avere tutta la giornata davanti, e scende a colazione dispensando sorrisi e bacetti.

Boy-one ha la testa piena di cose, e di storie, e di musica. Legge con un’avidità che non credevo possibile, e io sono stata una lettrice accanita da piccola (lo sarei ancora, ad averci tempo, sigh). A otto anni ha già al suo attivo letture anche lunghe e complesse, legge ogni momento, si perde nei suoi libri per ore ed ore.

Boy-one è quello che accoglie sempre con entusiasmo le cose nuove: non ha mai rifiutato nulla dal suo piatto, ha assaggiato curry, sushi, burger con carne di canguro, thai, cinese, indiano, e orecchiette con le cime di rapa tutto entro i primi tre anni di vita, e ha deciso che la cucina è la sua passione, annusa gli ingredienti, vuol sapere cosa c’è in quello che mangia, non per scartarlo ma proprio per capire.

Boy-one si butta in attività mai fatte prima, perché lo interessano, non si preoccupa se non ce la farà, non si fa problemi a chiedere quello che non sa, o a dire che una cosa non la sa fare. Che pare una scemata, ma non è quello che ci frega a tutti noi adulti? Spero si mantenga così.

Boy-one è quello che è passato dalla sera prima, quando l’ho messo a letto, ed era figlio unico, alla sera dopo, quando tornando dall’asilo ha trovato a casa il fratellino, senza battere ciglio, come se boy-two fosse sempre stato là, e non ha fatto mai una scenata di gelosia.

Boy-one è quello che vuole parlare. Sempre. Nel senso che non sta mai zitto, ma anche nel senso che vuole sviscerare le cose, con noi, che è la sfida maggiore per me e suo padre che siamo (saremmo) abituati a dire, aspetta devo pensarci su, torniamo a parlarne domani (confidando segretamente che il domani non arrivi mai).  Voleva cominciare clarinetto a scuola quest’anno, noi eravamo un po’ perplessi. Si è messo a tavola e ha dichiarato: “ora voi venite qui, vi sedete e ne parliamo”. E ci ha convinti, neanche a dirlo. Gli sembra talmente strano non parlare, che ce lo fa notare, quando stiamo zitti per troppo tempo: l’altra sera a cena ad esempio eravamo presi dalle nostre preoccupazioni e, senza intenzionalità, avevamo finito il piatto tutti in silenzio: lui scoppia a ridere “non è buffo? Non sta parlando nessuno!”. La qual cosa a me personalmente pare straordinaria: io sono stata una bambina che si teneva tutto dentro, tutto, e rendermi conto che invece lui non lo fa, e anzi pretende spiegazioni e pretende che noi ci si spieghi fra noi se per caso litighiamo, mi rende molto serena sul suo sviluppo emozionale (che era la mia paturnia peggiore, di non riuscire io, in fondo abbastanza disfunzionale emozionalmente, nel pieno stereotipo dell’informatico, ad aiutarlo in questo aspetto).

E, anche, sta a sentire, che non è banale. Ed elabora. Ricordo una volta a tre anni, eravamo in trasferta in Australia, e lui e suo fratello erano al nido dell’Università per i due mesi di permanenza. Dopo aver cominciato il nido con il solito trasporto (conosceva tutti nel giro di due giorni) deve aver provato un attimo di sconforto, magari gli mancavano le sue maestre, la sua casa, magari era stanco per il viaggio, e insomma verso la metà della seconda settimana ha iniziato ad aver problemi ad essere lasciato, arrivavamo lì ed erano pianti prima che me potessi andare (cosa che non ha mai fatto al nido di casa ad esempio, mai, neanche i primissimi giorni). Così alla terza o quarta volta, una sera che lui esordisce con “voglio tornare a casa”, ci sediamo a terra a parlarne. Gli chiedo che fanno all’asilo, se ci sono le merende, si leggono le storie, si canta eccetera. A modo suo racconta della giornata, che non mi pare molto dissimile da quella all’asilo di casa. Glielo faccio notare, e alla fine conveniamo (o meglio, io dichiaro e lui annuisce) che l’asilo dell’Australia “is nice”. E che non c’è bisogno di piangere. E che l’asilo non è per le mamme ma solo per i bambini. E che mamma e papà devono andare “a giocare” in ufficio, mentre lui gioca all’asilo. Andiamo a letto, ma non credete fossi tranquilla, non avrei dato un centesimo a questa conversazione, in fondo la sera si sta bene a casa, si sta in braccio con le coccole, non c’è nulla di cui preoccuparsi, è il giorno dopo che c’è la resa dei conti. Il giorno dopo, in strada è di solito allegro perché c’è tanto da fare (salutare Thomas the Tank Engine allo shopping centre, rincorrere gli uccelli e via dicendo). Arriviamo in vista dell’asilo, e io inizio a temere. Non dico nulla. Lui esordisce: “ecco l’asilo!”… io zitta… lui “we don’t cry anymore!” … io annuisco e taccio… “mommy and daddy go to the office and I go to asilo” … io annuisco… “we just give a hug and a kiss and then you go“… io annuisco ancora, ma non ci credo. Arriviamo all’asilo, entriamo in stanza, e lui trotterella allegro dentro, poi si gira: “a hug and a kiss!”, io eseguo, lui dice ciao ciao, entra e si mette a giocare. Il Mister va a mettere a posto il suo pranzo in frigo mentre io esco dalla stanza, e quando lui rivede il padre passare esclama ridendo “oh, that’s my daddy again!!” e riprende a giocare. E questo è quanto, non si è mai più posto alcun problema, il resto della permanenza è stata molto serena, e anzi l’ultimo giorno ci sono stati abbracci e lacrime (e nei primi tempi di ritorno a casa parlava sempre di Heather e Toby, i suoi maestri, e del fatto che “dobbiamo tornare, mi stanno aspettando!”).

Insomma, boy-one è la mia malattia, e il mio amore disperato. Forse per questo parlo con pudore di lui, e al contrario racconto volentieri di suo fratello, che invece è la mia cura, e il mio bambino. Perché boy-one diventa il metro con cui misuro tutto, tutta me stessa, ogni cosa che faccio o che vorrei fare, ogni dolore che mi capita e mi è capitato, viene anche, nella mia mente, contrappesato dalla sua reazione. Quando dicono le cose che si fanno per i figli non è tanto nel mio caso le cose che faccio “a” loro ma le cose che faccio “per” loro, nel senso di “a causa” loro, e spesso sento il peso dei suoi occhi grandissimi sulle mie scelte, e quegli occhi hanno il potere di influenzarmi, nel senso positivo, proprio come un vero maestro Jedi. Tipo, le volte (perché capitano anche ad una convinta come me) in cui penso che ma siiii lasciamo ‘sto lavoro e mettiamoci a far la mamma, sento che non saprei come spiegarlo a lui, sento che dovrei entrare a compromessi con quegli occhi, e sento che li deluderei, proprio dopo tutti i discorsi che abbiamo fatto sul tema. Ma al contempo quegli occhi che ridono sempre sono costantemente lì a dimostrarmi, con i fatti, e mio malgrado, quanto illusa e presuntuosa sia stata a credere che davvero, davvero, tutti i miei errori di mamma alle prime armi gli avrebbero rovinato la vita per sempre (ma vi rendete conto che ci ficcano in testa un sacco di boiate? Ma chi ci crediamo di essere, noi mamme, ad avere tutti ‘sti superpoteri? Tze!).

E allora mi era piaciuta per il suo ottavo genetliaco l’idea di farvelo conoscere un pochetto, il mio bellissimo bambino dalle ciglia lunghe, nella consapevolezza piena che non ho alcun merito del suo essere così speciale, che a volte davvero mi stronca, come quando da piccolissimo lo guardavo e pensavo che era troppo bello, e quel “troppo”, quella bellezza mi feriva, invece di inorgoglirmi, mi faceva stare male, come se aggiungesse responsabilità a responsabilità, nella mia paura irrazionale (e stupida, lo capisco adesso) di poter rovinare una cosa così magnifica, come se ti mettessero in mano un’opera d’arte antichissima e rarissima e tu stai lì combattuto fra la meraviglia e il terrore di farla cadere. E invece la cosa speciale rimane speciale malgrado tutto, senza merito di alcuno, senza colpa di alcuno.

E vabbe’, mi rendo conto vi siete beccati il tipico post  da mommy-blogger-luce-dei-miei-occhi, chiedo venia, ma del resto delle disgraziate di cui non farò nomi mi hanno anche coinvolta di recente in un post da fudbloggah, ormai ho perso qualsiasi credibilità. Oh well.

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21 thoughts on “Otto anni”

  1. Sono rimasta senza fiato….per alcuni versi mi sono sentita coinvolta in prima persona perché rivivevo la mia esperienza di mamma, quando le girls erano più piccole e con i loro sorrisi, le loro battute ti lasciavano senza parole. Sicuramente ritengo che quello che abbiamo è un dono, anzi due doni, che dobbiamo accudire, crescere, ma anche lasciarle libere di scegliere e sbagliare.

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  2. mi hai commosso…
    e confermo che l’annata del 2004 è un’ottima annata !
    noi saremo otto a novembre !!!

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