Ogni paese ha la sua valigia

“Io ho avuto in classe un portatore di handicap” disse l’incauto studente al professore, alla domanda “Quali esperienze avete avuto, nella vostra vita con l’handicap e la disabilità?”.
“Veniva a scuola con le borse?” Chiese sarcastico il cattedratico mimando il gesto di reggere due sporte della spesa.
“In che senso, scusi?”
“Come lo portava l’handicap?”

Foto Kurt Collins utilizzata con licenza Flickr Creative Common
Foto Kurt Collins utilizzata con licenza Flickr Creative Common
Le parole sono importanti, diceva quel docente e penso che sia vero. Nel disagio diventano fondamentali, pensate a come sono cambiate nel tempo: chi si sognerebbe di definire “Idiota” una persona con la sindrome di Down, al giorno d’oggi? Eppure “idiota” si trova nelle cartelle cliniche fino agli anni ’70. Molti di noi si ricordano gli anni ’70, perdinci.
Poi basta leggere un giornale, cosa sta diventando la parola profugo? Pensate alla prima volta che l’avete sentita nominare. Io se mi concentro riesco a ricordare fino al Libano. C’erano i campi profughi e persone costrette a  lasciare tutto senza sapere se e quando sarebbero potuti tornare. Adesso quasi ha un’accezione negativa e allora dagli di locuzioni e giri di parole: “Richiedente protezione internazionale”, giusto per citarne una.
Quindi niente “portatori di handicap” che, diciamolo, aveva anche lo svantaggio di essere piuttosto brutta, come definizione.
Eppure non era sbagliata, nel concetto di fondo.
Ad esempio diceva che le persona non erano il problema ma, in qualche modo, rimanendo sull’immagine delle sporte della spesa, riconosceva che il problema non doveva connotare la persona. Un ragazzo non è down, ma affetto da Sindrome di Down.
Nello stesso tempo dava il senso del peso, del carico da portare. Non raccontiamoci la favola del “diversamente abile”: l’handicap è un problema serio e chiunque ne sia “portatore” farebbe a cambio volentieri rinunciando senza problemi a tutte le sue “diverse abilità”.
Il punto però è non tanto se sia giusta o meno l’immagine delle sporte della spesa da cui siamo partiti, quanto stabilire chi debba portarle queste benedette sporte.
In questo senso non bisogna definire una persona in situazione di disabilità “portatore di handicap”: lui è una persona ed è giusto che quel carico venga condiviso quanto più questo sia possibile.
Qualche anno fa, in una serata a base di birra e aneddoti giovanili, un amico raccontò alcuni episodi che gli erano capitati incontrando per strada alcuni personaggi caratteristici del paese: il pazzo che abita in piazza, l’ubriacone seriale che tutti conoscono, il ragazzo con ritardo mentale che frequenta i gruppi parrocchiali, ecc.
“Ogni paese ga la so valìsa!” (Ogni paese ha la sua valigia), disse chiudendo il racconto citando il suo saggio e anziano padre, amante di detti popolari.
E la valigia è il disagio, la fragilità delle persone più deboli e, udite udite, è il paese che la porta. Pensate che mondo sarebbe, se riuscissimo ad unire le professionalità di adesso all’idea dei nostri nonni, quella che ogni comunità ha il dovere di portare il proprio bagaglio.
Se potessimo davvero farci carico ciascuno dell’integrazione delle persone con disabilità, dei richiedenti asilo, degli ex tossicodipendenti, ciascuno di noi attraverso quello che può fare, alleggerendo la soma di chi solitamente se la porta da solo.
Senza confinarli in recinti più o meno dignitosi, senza fare finta che non sia un problema nostro.
Chissà se anche il professore universitario cambierebbe idea, se alla fine sarebbe più morbido contro chi usa certe terminologie, se fossimo un po’ tutti portatori di handicap.

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