Quello che loro hanno imparato da A me

Foto di David utilizzata con licenza Creative Commons
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Gli occhi di Emanuele, tanti anni fa, mi hanno insegnato che il contatto è importante. È importante quello visivo, per lui che è seduto in sedia a rotelle, ma è importante anche quello fisico, che dare o non dare la mano non è la stessa cosa. È importante per tutti, e saperli misurare, nella dose giusta per sé e per chi è con noi, è una forma d’arte.
Anche se in mezzo c’è bava o puzza di pipì, anche se è difficile.

Dalle gambe vecchie e sformate di Chiara ho imparato che la vita lascia segni che non sempre possiamo governare ma che abbiamo il dovere di provare a farlo. Che alternativa abbiamo? C’è sempre un’alternativa, ma può essere molto dolorosa, molto invalidante e, come è accaduto a lei, molto molto sola.

I piedi di Davide mi hanno spiegato che la droga rende cattivi. Lo ha imparato anche Giulia, sulla quale lui ha lasciato più volte i segni dei suoi stivali, un giorno, in bagno, in una pausa del lavoro.

Dagli occhi di Mauro si capisce che la malattia mentale fa paura soprattutto al diretto interessato. Molto spesso questa paura resta chiusa a chiave dentro al cuore. A volte esplode in un gesto malsano, spesso rivolto a se stessi o, nella stessa misura, verso i propri cari, e allora ne parlano i giornali. Altre volte è talmente devastante che fa del male anche a persone che non centrano e allora, forse, ne fanno un film. Molto spesso rimane paura intima, privata e dolorosa. E allora non importa a nessuno.

Le poche parole che conosceva Amin mi hanno insegnato che è assurdo avere un lavoro, una casa, dei soldi e tutta la vita davanti e trovarsi in un centro di accoglienza, imbarcato su un barcone per colpa di una guerra d’altri. E abitare in una casa che non si è scelta, senza lavoro e con i soldi che stanno per finire.>

Rachid ha provato a spiegarmi che essere in carcere non significa essere criminale, perché lui non avrebbe mai voluto rubare, ma non aveva soldi, non sapeva dove dormire e stava morendo di fame e lo avrebbe fatto solo una volta, pieno di sensi di colpa, per avere quel minimo per continuare a cercare: un lavoro, o qualcuno che lo aiutasse, per lo meno.

Isatu mi ha insegnato che si può sorridere anche se hai un braccio solo, perché l’altro te lo hanno tagliato i soldati, mettendo in un cappello i bigliettini con scritto sopra la parte del corpo da estrarre a sorte.

Ecco, avete mai sentito dire la frase «Mi danno molto più di quanto io dia a loro?»
Di solito la dicono i volontari.
Io non sono volontario e non l’ho mai detta, ma provando a pensare a quante cose mi hanno insegnato le persone che da me, in teoria, si aspettavano un aiuto, mi sono venute in mente queste.
Loro ci hanno provato, ma io non so se lo ho imparate.

Alcune sono davvero difficili da mandare a mente.

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