Le parole che contano. Un contributo minimo

Di quante cose abbiamo parlato in questo mese, rileggo i post a ritroso e davvero vedo una profondità di discussioni, un’ampiezza di respiro. Questo post invece offre un contributo minimo, che era originariamente parte del post UK-centrico di GCInternational, ma alla fine ne è stato scorporato proprio per migliorare (spero) la focalizzazione di quello. Silvia e Serena mi concedono dunque un’appendice, per una riflessione minore su un problema (forse) minore.

Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni in terra di Albione è che il Paese che mi ospita è altamente contraddittorio. Forse lo sono tutti, una volta che li conosci meglio, e forse la dissonanza sta nel fatto che confronti il tuo stereotipo pregresso e la realtà, ma fatto sta che secondo me gli Inglesi sono l’archetipo della contraddizione, sono il posto dove convivono bellamente i gruppi punk e le borsette della regina, la ricerca tecnologica all’avanguardia e le pipe e i sigari dei professori di Oxford, la pigrizia nello studio delle lingue, e la inclinazione genetica ad essere esploratore e viaggiatore sempre e comunque, la rassicurante confortevolezza del cup of tea e l’adozione incondizionata della cucina oltremanica, dal curry alla pizza. E, fra l’altro, la magnificenza di una lingua che contiene probabilmente il maggior numero di vocaboli al mondo, e la tranquilla nonchalance con cui se la fanno martoriare e modificare pur continuando ad identificarla come propria.

Per esempio, il politicallycorrect-ese diventa lingua franca in cui tutto si può dire, la grammatica si può violentare a piacimento, pur di mantenere il principio. Così ti trovi a sincopare, specie per lavoro, brani pesantissimi in cui ogni volta che c’è un pronome viene messo il suo doppio (“he/she washed his/her car”), o costruzioni grammaticalmente fastidiose in cui singolare e plurale si mescolano pur di mantenere il neutro (“the user needed to open their files”). O, anche, decisioni dubbie di ignorare etimologia e andare per senso comune, e un esempio che è capitato di recente mi ha fatto molto sorridere: per andare da casa in centro a Liverpool devo attraversare un tunnel sotto la foce del fiume Mersey. C’è un pedaggio da pagare, con delle monetine, e in alcuni dei caselli, non tutti, c’è del personale per cambiarti le banconote in spiccioli. Per buona parte degli anni scorsi, questi caselli avevano l’insegna “Manned”, cioè appunto gestiti da personale “umano” 🙂 Come molte altre parole, tipo manager, manned viene dal latino, da “manus” insomma. Ma capita che il prefisso possa essere erroneamente creduto essere simile a quello di “man”, uomo. Così, non so se per rispondere a lamentele effettive o per decisione autonoma, ad un certo punto queste insegne sono state tutte sostituite da “Staffed”, che vuol dire più o meno lo stesso, ma partendo da un’altra radice etimologica che fuga ogni dubbio (il motivo per cui l’Inglese ha tante parole è proprio questo, che ha termini duplicati come significato, ma lessicalmente differenti perché provenienti dalle varie lingue, franche, sassoni, vichinghe, celtiche eccetera, che entrano nel calderone – col tempo ad ogni “versione” è stata associata un’accezione leggermente diversa, quindi si possono usare con un alto tasso di precisione per convogliare il pensiero).

Ora, questi vi possono davvero sembrare un bizantinismo, con tutti i problemi che ci sono signora mia, ma quello che questa attitudine mi ha regalato, negli anni passati, è una grande attenzione alle parole e a come le uso. Il lessico forma la materia prima con cui parliamo delle cose, e può cambiare molto, in tutte le direzioni, può creare un problema o sminuirlo in un minuto. Per fare un esempio, una campagna congiunta di associazioni per pari opportunità e genitoriali si è dedicata nel 2010 a fare lobby per cambiare un termine in particolare dell’Equality Act, in materia di licenziamento per giusta/ingiusta causa. L’Act fino ad allora indicava come condizione per stabilire la discriminazione che il lavoratore potesse essere stato trattato “meno favorevolmente di altri” sulla base di una caratteristica protetta dall’Act (religione, sesso, nazionalità, etnia, disabilità e così via). La campagna è riuscita a far eliminare il comparativo. Ora l’Act invece di “meno favorevolmente di altri” dice semplicemente “sfavorevolmente”. L’eliminazione di un semplice comparativo significa che non bisogna più dimostrare che altri in azienda sono stati trattati diversamente, e quindi si è usciti da quella situazione in cui si era discriminati due volte in sostanza. Nel contesto in cui le organizzazioni che hanno fatto pressione si muovevano, questo ha significato molto per le situazioni di gravidanza e maternità in particolare: diventa ora più chiaro e inequivocabile che una donna non può essere trattata sfavorevolmente per questa ragione, non importa se altri lavoratori uomini o donne hanno accettato condizioni differenti a parità di situazione.

Insomma, un lessico attento non può far sparire un problema o creare una legge, e del resto non esiste la bacchetta magica, una legge contro i furti non ha mai fatto sparire i ladri, ma permette alla società civile di accordarsi in modo preciso su cosa sia accettabile e cosa no, e fornisce gli strumenti per parlare di certi argomenti, e portare avanti certi desiderata.

In un contesto diverso, ma forse neanche troppo, ad esempio, non posso fare a meno di notare che spesso le campagne e le lobby in Italia hanno un retrogusto differente. Vedi per esempio l’uso e abuso di slogan stranieri. Ora, con il mio parlato imbastardito dopo tanti anni di anglo-immersione, figuratevi se mi scandalizzo per un uso liberale dell’inglese, non è quello il problema, è solo che, non so come spiegarlo, mi pare a volte noi italiani lo si faccia tanto per esser sicuri che nessuno ci consideri troppo coinvolti (che si sa non si fa bella figura a parere troppo sentimentali, o a crederci troppo, oh, il cinismo innanzitutto). E quindi un termine in una lingua differente aiuta a tenere le distanze. Un esempio recente mi ha colpita molto in questo senso, e chiedo scusa a priori se ci sono persone fra voi coinvolte in questa campagna che per tutti gli altri aspetti invece ho trovato importante e molto urgente, e a cui invito tutti caldamente a partecipare. Una iniziativa recente a riguardo della situazione italiana della violenza sulle donne è stata lanciata su twitter con hashtag #italyrapesinsilence (l’Italia stupra in silenzio). Ora a parte che come frase inglese in sè non la vedo molto agevole, ma non importa, non stiamo parlando a madrelingua ma a noi italiani, io vorrei capire che ne pensate di questa scelta. Cioè, se a me, che comunque vivo immersa in un mondo anglofono, lo slogan pare artificioso, cosa ne pensate voi che invece siete lì? No, mi interessa. È questo un hashtag che vi coinvolge, vi commuove, vi smuove? A chi è diretto secondo voi, alle istituzioni? Alla gente? Alle donne in difficoltà? È un hashtag che la donna stuprata può trovare empatico, che la fa sentire abbracciata su twitter da tutti quelli che lo usano? Oh, magari sono io che sono prevenuta, ma a me pare di no sinceramente, a me pare rivolto essenzialmente ai twitterati attivisti. E non è una questione di snobismo, o di autarchia nel linguaggio, è una questione di efficacia pura, cioè del trovare la frase, LA FRASE che va dritto al cuore.

Anche in UK di recente il sito mumsnet, di cui ho parlato in altre occasioni, ha impostato una campagna sullo stesso tema. L’obiettivo è semplice e preciso, non soltanto una “sensibilizzazione” asettica, ma un puntare a raggiungere tutte quelle che hanno subito violenza, con una parola, con la speranza di fare loro trovare il coraggio di denunciare: la violenza femminile rimane comunque uno dei reati più occulti, e lo sappiamo bene anche da noi, uno dei problemi maggiori è proprio quello che quelli denunciati costituiscono solo una minima parte dei reati effettivi. Insomma, tornando a noi, sapete che hashtag hanno pensato di usare? #webelieveyou. “Ti crediamo”. Solo questo, senza entrare nei dettagli, senza menzionare “a che proposito”, non ce n’è bisogno. Alla moglie che non ha il coraggio di dire che il marito la picchia: #ticrediamo. Alla ragazza che non è sicura che quella sera dopo la discoteca si potesse qualificare come… e perché aveva bevuto.. e perché quel ragazzo le piaceva….: #ticrediamo. Alla ragazzina che, non lo so, è pur sempre mio padre in fondo… #ticrediamo.

Ti.

Crediamo.

Quando ho visto questa cosa a me sono venuti i brividi, ho pensato a tutte queste ragazze e donne che si vedevano apparire questo sullo schermo, mi pareva davvero un grande, unico abbraccio. E non ho potuto fare a meno di confrontarlo con il nostro, che invece mi pareva tutto sommato freddo, e anche ambiguo.

E insomma, come davvero riflessione minima a margine di questo mese su genitoricrescono così intenso, un invito a me per prima a non sottovalutare il potere delle parole, a riappropriarci di quest’arma importante, ad affinare le capacità di dibattito, merce molto rara al momento, e ridistribuirle indietro a mani piene, alla società e alle altre donne. E non dev’essere solo un problema minore se ci sono organizzazioni che decidono di investire proprio in questo, nell’equipaggiare giovani ragazze con questo prezioso armamentario.

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6 thoughts on “Le parole che contano. Un contributo minimo”

  1. No no Supermambanana, non sei tu. Anche io sono rimasta assolutamente fredda di fronte a “Italy rapes in silence” che sembra una denuncia di Amnesty international sui canali internazionali, mentre mi sono venuti i brividi leggendo “We believe you”, e immediatamente mi sono tornati in mente alcuni casi di racconti di violenze di cui avevo letto in passato, tutti accomunati proprio da questa esperienza comune, il fatto che la vittima non veniva creduta.

    Riguardo la goffaggine dello slogan italiano, mi domando se molte iniziative non vengano falsate e insomma azzoppate, dalla difficoltà italiana a rapportarsi con determinati vissuti, che mostrano il loro volto di tabù. Paradossalmente il fatto di usare l’inglese serve a mantenere una distanza emotiva anche o soprattutto per chi scrive.

    C’è anche un’altra cosa secondo me, e cioè un modo malinteso di rapportarsi con la tecnologia – e quindi di riflesso con la lingua inglese. Leggevo qualche giorno fa Loredana Lipperini e Giovanna Cosenza denunciare il fatto che oggi la tecnologia viene usata come riempitivo di un messaggio che non c’è, che però serve ad apparire gggiovani e alla moda (Lipperini parlava delle campagne online senza contenuti di “Se non ora quando”, e Cosenza di alcune campagne elettorali online, del tutto svuotate di contenuti). L’uso dell’inglese al posto dell’italiano potrebbe essere quindi un prodotto dello stesso atteggiamento mentale, di sudditanza verso il Mezzo Onnipotente, come se potesse essere questo, da solo, a produrre un cambiamento e modernizzare la nostra società.

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  2. deborah e’ vero ci sono parole insostituibili, e infatti non le sostituiamo. Ma ci sono anche contesti e contesti, e, serena e barbara, per rispondere anche a voi, ovvio che qui e’ un problema di copywriter, non sto facendo dietrologie, ma il copywriter comunque risponde ad una esigenza: e’ una denuncia che vogliamo fare, OK, d’accordo, ma quanto la frase inglese colpisce nel segno? Quanti leggendola hanno capito che era quello il messaggio? A chi era diretta? Se gli unici che l’hanno capita sono quelli/e che hanno impostato la campagna, allora non e’ una frase efficace, no? Oh, magari sono io… 🙂

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  3. Non twittero, quindi un commento da esterna. webelieveyou è accogliente, lo clicchi e già ti senti meglio (ammesso che questo sia possibile). italyrapesinsilence è già una denuncia, mi sembra più aperta a non vittime che vogliono protestare che un posto accogliente e “sicuro” dove poter raccontare la propria storia. Insomma se fossi stata vittima di una violenza vedermi ricordare il termine rape non so quanto mi avvicinerebbe…

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  4. Il webelieveyou ha sicuramente un grande impatto, ha la capacità allo stesso tempo non solo di abbracciare virtualmente chi si trova in questa situazione, ma anche di far riflettere chi non lo sa sulla parte peggiore della violenza alle donne: ossia il fatto che nessuno voglia crederlo. Il Italyrapesinsilence mi sembra più uno statement, un voler dire le cose come stanno, ma ha sicuramente un potere inferiore, perché al massimo genera indignazione in qualcuno. Mi chiedo però se al di la di un discorso tutto italiano, non sia semplicemente un caso in cui il copywriter in un caso ha fatto un buon lavoro, nel secondo caso un po’ meno. Che dici?

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  5. “Le parole sono importanti” proclamava Moretti in un celebre film. E io sono sicura che, in un mondo dominato dalle scienze tecnologiche, la parola giusta possa ancora sollevare il mondo. Le parole per me sono magiche, risolvono situazioni, mettono in chiaro sentimenti. Certe parole, lette in tempi non maturi, ti rimangono conficcate nel cervello in attesa della loro disvelazione. Sono le parole che ci rimbalzano in testa in continuazione e, più dei numeri, sanno essere perfette. Scusate tutta questa apologia, ma sono una specie di fanatica della parola, mi diverto perfino con mia figlia a usare dei “paroloni”, ma proprio giusti in quel momento per quella cosa lì..
    E’ vero anche che certe parole inglesi sono insostituibili. Come lo spieghi l’understatement? certi slogan, comunque, come quello di twitter che menzionavi, rivelano solo la voglia di mostrarsi cool (eccone un altro ;))A me sta bene mescolare le lingue, ma non usiamo week end al posto di fine settimana. Così non ha senso. Usiamo un’ altra lingua e un’ altra visione del mondo,(weltanshauung!), quindi, solo quando la nostra proprio non ci viene in soccorso.Perchè magari, da noi, l’understatement non esiste.

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