La tradizione è una cosa che si mangia. Tra massa critica e fai-da-te migrante

Anni fa, prima di avere figli, ma con il progetto di biculturalismo familiare ben chiaro in mente, con mio marito decidemmo che ovunque saremmo vissuti, a casa nostra con i bambini si sarebbe parlata la lingua di minoranza. Peccato che non ci venne in mente di fare un master plan di come intendevamo regolarci con le rispettive tradizioni. Così ci è toccato andare a braccio e se penso alla fatica immane che ho fatto per i primi cinque anni di vita dei figli, cara grazia se quest’ anno sono riuscita a riesumare le decorazioni di Natale seppellite in soffitta da almeno tre anni (non che sia riuscita ad usarle, ma a Natale è il pensiero che conta).

La fregatura è che vivendo in Olanda tutte le tradizioni invernali e tutte le energie disponibili per portarle avanti vengono fagocitate da san Martino e san Nicola, e il Natale, che in fondo è una roba da cattolici brutti, puzzoni e che figliano come conigli, sta sempre un po’ lì per ultimo che non si capisce bene. Ovvero, si capisce benissimo che è una roba puramente commerciale, che il commercio funziona sempre. Per dire, che qui i saldi iniziano timidamente col 20% e 30% di sconto prima di Natale, così uno se proprio lo devi incoraggiare a rivestirsi, prendi due piccioni con una fava.

E l’altra fregatura, quindi, è che non ho mai capito veramente come funzionino le tradizioni di Natale dai miei suoceri, che sicuramente ci sono, ma si limitano alle fantastiche cartoline d’auguri di mia suocera che ogni anno si inventa qualcosa di meraviglioso e fai-da-te da spedire, ma sul cibo, curatissimo, è un po’ ogni anno quello che va. Non ci posso contare, ecco, su quei piatti che fai e mangi solo a Natale perché è Natale.

Peccato che a me manchino, ma tanto, quelli di casa mia, dove tra la vigilia di magro alla polacca di mia madre, la lasagna festiva che mia nonna iniziava a stendere prima della messa di mezzanotte, quando la cena era finita e tanto valeva portarsi avanti con la sfoglia, e il brodo di cardone di zia Ida a santo Stefano, e soprattutto un sacco di gente a cena o a pranzo con noi, un nostro sincretismo festivo lo avevamo creato.

Per me Natale poi è il cenone del 24, che con mia madre, o mia nonna polacca, ci mettevamo a cucinare per 3 giorni. Nei tre giorni successivi si mangiavano gli avanzi a cui aggiungere un paio di piatti di carne. Mia nonna specialmente era una macchina da guerra, con il dolce lievitato che le scappava dalla ciotola perché il forno andava a tutta callara e lei tagliava, sminuzzava, mescolava, impastava che era una meraviglia.

A me delle tradizioni di Natale manca che si andava per presepi, sia in Italia che quelle poche volte che l’abbiamo fatto in Polonia. Mi mancano i lavoretti, che da piccola non ci ero portata per niente, ma mia madre quando avevo tre anni mi fece un paio di ali da angelo meravigliose in cartoncino e carta velina.

Il gran culo che ho avuto nella vita è che da noi queste feste e tradizioni sono sempre state soprattutto un momento di convivialità, di lavoro insieme in cucina (ricordo l’anno in cui ribattezzammo mio fratello quindicenne Bravo Simac, perché aveva la forza di venti braccia e montava a mano un litro di panna così, in due minuti), di alberi di Natale o anche solo un ramo fresco per il profumo. E il fatto che sono imparentata con gente intelligente e ragionevole (tranne una zia, ma la vedo poco a Natale) e a casa nostra non ci sono mai state quelle feste formali di gente che si sta sulle scatole e si dice cattiverie tra le righe o decisamente fuori, quelle che ti raccontano nei film e nelle barzellette. Non abbiamo mai avuto lo stress del regalo o dell’obbligo, abbiamo sempre fatto un mucchio di regalini a chi volevamo, come potevamo e per il piacere di farli (e se capitava, di riceverli).

Insomma, questo è quello che mi manca, i punti fermi di certe tradizioni che ti dicono che l’anno sta per finire, che si tirano le fila del discorso e le giornate ricominciano ad allungarsi. E mi dispiace che i miei figli si siano persi questo nel modo in cui lo conosco io. Perché uno non ci pensa quando se ne va all’estero, pensa e vede soprattutto l’arricchimento della tradizione vista da tanti punti di vista diversi, però poi quello che manca al sentimento festivo è la massa critica intorno di gente che fa quello che fai tu. Che cucina e che mangia quello che mangi tu.

Per quanto poi, alla fine, anche questa tradizione di casa mia che ho in testa, è soprattutto la somma di tante piccole cose che sono cresciute con il tempo e gli anni, il Bravo Simac in fondo l’abbiamo fatto solo quell’anno lì, e le ali d’angelo solo quella volta lì, e le stelle di natale tridimensionali per l’albero, anche loro, fatte una volta e poi per anni le abbiamo solo riappese. E quindi sono ancora in tempo a costruire tanti piccoli momenti insieme ai miei figli.

E allora mi sono inventata, con il gruppo di amici e vicini che avevo a casa vecchia, tutte o quasi famiglie biculturali come noi, la nostra festa della vigilia, dove ognuno porta qualche sua specialità tradizionale, e non importa che non siano né italiane o polacche, né cattoliche, ci importa stare bene insieme almeno all’inizio della festa, per il piacere di riaggiornarci, chiacchierare, e buttare tutti i bambini insieme da qualche parte che si arrangino con un genitore a turno che controlla che i piccoli sopravvivano ai giochi scatenati. Questa cena ci serviva per ricaricarci prima di affrontare le feste di Natale con i suoceri olandesi, in cui sei un ospite e segui la scia, e non cucini tu.

Perché se rileggo i miei vecchi post natalizi (ma anche pasquali) l’unica cosa che salta all’ occhio è quanto fossi sempre stanca, sfinita, piena di obblighi a cui trascinarmi prima di ogni festa. E mi ammalavo pure. Insomma, io quest’anno l’ho presa da un altro lato: ho cercato di regalarmi del tempo per tirar fuori il presepe, ridipingere le scale, sistemar casa, fare un calendarietto dell’avvento con i bambini, passare i pomeriggi delle domeniche d’avvento sul divano a guardarci Indiana Jones e mangiare pop-corn. Fare dei giochi da tavolo. Nascondere i comandi della Wii o non se ne esce vivi. Fare i calcionetti, che sono anch’essi uno dei sapori tipici del mio Natale bambino, dei ravioli fritti ripieni di ceci, cacao e mosto cotto che si fanno in provincia di Teramo e quindi noi a casa nostra no, mai fatti, ma nonna ne riportava dei vassoi interi dalle sue visite prenatalizie alle amiche a Tortoreto (ah, la massa critica). Li ho fatti il 23, prima con una ricetta che avevo letto male (fa differenza se metti mezzo litro d’olio o mezzo decilitro nell’impasto), poi con una ricetta incompleta (mancava l’uovo, ma l’ho capito da me) e poi i figli si sono persino decisi ad aiutarmi con la macchinetta per tirare sfoglie.

E siamo andati alla cena dell’antevigilia, la Squilla che tipicamente si festeggia a Lanciano, invitati last-minute da Antonella. Che mi ha confidato di esser stata depressissima, cosa molto poco da lei, per una settimana si trascinava piangendo dal letto al divano, perché lei viene in fondo da una cittadina e una famiglia molto tradizionali e ritrovarsi un questo deserto dei Tartari festivo, niente, le faceva brutto. E quindi ha deciso di invitare un po’ di amici e farci i nove piatti di magro della Squilla.

Perché hai voglia a fare il traghettatore, come ha detto così bene Supermambanana, la tradizione è per forza una cosa condivisa e se non c’è nessuno intorno a condividerla che tradizione è? Diventa un weekend festivo come ce ne sono altri.

Un po’ come disse la mia amica iraniana quando andammo alla festa del fuoco organizzata nei giardini del Museo Antropologico. Si salta sul fuoco, un po’ come si fa da noi a San Giovanni, mentre da loro è Zoroastro, per purificarsi, per superare una piccola pietra miliare nell’anno. E c’era questa fila di bracieri, e lei ha preso in mano la bambina e per sicurezza se la faceva corre di fianco al braciere, e correvano e saltavano tutte e due, e abbiamo incrociato tutti gli iraniani che conoscevamo.

Ma che bella questa vostra festa, non la conoscevo. E tu, sei contenta che tua figlia abbia potuto saltare con te?”

Si e no. A Teheran in strada in questo momento ce ne sono centinaia di fuochi e stanno tutti fuori, questa fila di bracieri mi fa quasi tristezza, ma meglio di niente“.

Meglio di niente. Fosse questo il segreto per godersi le tradizioni? Meno male che alla vigilia le amiche polacche mi hanno portato il barszcz, la minestra di rape rosse (sui tortelloni ai funghi che ci andavano dentro ci siamo perse, ognuna credeva li avrebbe fatti un’altra), e il sernik, il dolce al formaggio. Che Luisa ha fatto la lasagna. Che Giulia ha fatto mangiare i bambini con pasta al ragù e cupcakes. Che io avevo in casa una scorta di torroni, panforte e vino da rallegrare un quartiere. Che gli olandesi hanno portato il resto. Che persino il ventenne appena arrivato da Pescara per farsi una vita lavorativa, dopo consultazione telefonica con la madre ha fatto una pizza rustica che levati e le pizzette “perché mi pare brutto che a Natale non cucino niente”.

Ma come pensi di far entrare 23 persone in casa nostra?” si chiedeva il capo.

Tiro giù le sedie dalla soffitta, ci sediamo sui divani e facciamo un buffet“.

Poi a Natale ci siamo messi a tavola alle 18 con i suoceri e i loro consuoceri, ci siamo goduti il menu di Natale di Jamie Oliver della rivista culinaria e alle 20.37 abbiamo iniziato a sparecchiare. I figli hanno snobbato Jamie e hanno mangiato pane e burro di arachidi. Le canzoni di Natale per fortuna le hanno almeno cantate a scuola e Orso, al telefono all’altra nonna.

Il cenone di Capodanno adesso però lo prendo in mano io. Oppure prendo un aereo.

 

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4 thoughts on “La tradizione è una cosa che si mangia. Tra massa critica e fai-da-te migrante”

  1. I tuoi ricordi di cose anche fatte una sola volta ti ha fatto ricordare quanto siano importanti queste piccole cose per formare la nostra storia e creare una nostra personale tradizione.Che bella questa festa nuova-tradizione che hai creato!

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