L’intervista: la parola a papà “Desian”

L’intervista di oggi è ad uno dei pochi papà italiani presenti nella blogosfera, papà della donna grande e dell’uomo piccolo, conosciuto nella rete con il nome di Desian. In questa intervista ci da libero accesso alle sue emozioni più intime di padre e marito, che conduce una lotta personale per definire il suo ruolo non solo nella società ma anche con se stesso, cercando di superare il divario tra desiderio di essere padre consapevole e le difficoltà che inevitabilmente si incontrano nella vita quotidiana.

A volte si ritiene che il papà possa metterci un po’ più di tempo a sentirsi tale. Quale è stata la tua esperienza? E’ stato un amore a prima vista?
La mia esperienza personale racconta qualcosa che credo sia comune a molti: la rimozione, nella nostra società italiana, della figura del padre (consapevole). Penso che noi, attualmente quarantenni, siamo la prima generazione che ha tentato (faticosamente, ah quanto!) una ricognizione seria attorno all’idea della paternità consapevole, del ruolo (coi figli ma anche nella coppia), della creazione di un immaginario comune nuovo, inedito. Il percorso di appropriazione è quindi certamente più lento e accidentato: non foss’altro perché tra uomini non si parla di paternità, o se ne parla ancora troppo poco. Mentre tra donne c’è sempre stata, almeno storicamente, una via di comunicazione aperta sul tema e sul “tramandare l’arte”, le generazioni maschili precedenti alla nostra (quindi mio padre, o per risalire ancora un po’, mio nonno) non sapevano e quindi non potevano parlare né trasmettere alcunché. Amore a prima vista, sì, se parliamo dell’idea di fare un figlio; fatica e rincorsa nel fare il babbo. Ed esserlo. Ma il percorso continua.

Nel corso dei primi mesi di vita della tua prima figlia, quali sono state le maggiori differenze tra l’esperienza che ti aspettavi e quella reale? Pensi che le tue aspettative di padre coincidessero con quelle della madre? Come è andata alla nascita del secondo?
Per la donna grande, che oggi ha sette anni, come coppia mettemmo in campo tutti i nostri desideri e le proiezioni possibili sui rispettivi ruoli che ci aspettavano, nei mesi dell’attesa. Anche i dubbi e le insicurezze intraviste, s’intende. Io mi vedevo padre attento, paziente, empatico, partecipativo, consapevole appunto. Invece la realtà è stata molto più consapevole di me e mi ha spiazzato completamente, buttandomi addosso tutta la fatica di capire. Perché l’amore e la sincronia (tutta biologica, della madre) con quell’esserino che usa un linguaggio completamente dimenticato, quello dei bisogni nudi, non erano sufficienti per capire cosa ci stavo a fare. I primi mesi sono stati un continuo andirivieni tra emozioni stupefacenti e depressioni cosmiche: un lancio senza paracadute mentre il suolo si avvicina e sai che si aprirà; ma intanto non trovi la cordicella che apre e nessuno te la sa indicare. Perché se tanto si fa per la genitorialità (corsi pre, corsi post, corsi e incontri di ogni risma), in realtà si parla di bambini e di madri, pochissimo (niente?) di padri. Per cui la strada te la tracci da te. L’uomo piccolo, invece, che oggi ha cinque anni e mezzo, è arrivato dopo tante domande (ché la consapevolezza quello porta, mai certezze, più domande invece) ma ha avuto, per sua fortuna, due genitori vagamente svezzati e, sicuramente, un babbo che aveva già un percorso di (auto)formazione avviato. Col secondo, gli errori e le fatiche della prima volta già li conosci e non dico che non li fai più (questo è un mestiere che non si impara così in fretta, purtroppo), ma perlomeno sai come ridurre il danno. Sai come si atterra. Se poi c’è una cosa che, detta così, può sembrare banale, è invece proprio quella che si cresce insieme: loro diventano grandi e il tuo percorso avanza affiancato, loro strutturano la complessità e in te finalmente risuona il diapason di quello che hai imparato, dei confronti che hai operato, degli esercizi fatti e (chissà se ben) riusciti.

Hai usufruito del congedo parentale? Come ha reagito il tuo datore di lavoro? E i tuoi colleghi?
Su questo argomento ho poco da dire perché essendo un lavoratore autonomo ho sempre avuto modo di gestire il mio tempo con elasticità sufficiente. Certo non ho avuto un vero congedo, un periodo di totale dedizione alla “babbitudine” ma ho letto, nel mio mondo lavorativo (piuttosto “tradizionale” e conservatore) una certa qual diffidenza nel mio comportamento di babbo presente: se una maternità non è mai vista da alcuno, men che meno dai datori di lavoro, con favore, figuriamoci un padre che voglia usufruire del congedo parentale: praticamente un marziano! Non per rivoltare la frittata sui diritti e doveri e sulle scelte individuali, ma credo proprio che in questo ambito vadano ancora fatti passi enormi (ma davvero lunghi lunghi) solo per avvicinarsi al grado di civiltà sociale che l’argomento genitorialità-lavoro richiede. Altro che uguaglianza…

Nel nostro post La paternità negata sosteniamo che spesso ai papà non viene lasciato spazio per occuparsi a pieno titolo dei figli. Quale è stata la tua esperienza in merito? Hai avuto la possibilità di occuparti da solo dei tuoi figli sin dall’inizio?
In realtà dissento dal post, e mi spiego. Non penso che le madri lottino per il primato, sarebbe miope vedere così le differenze tra i ruoli: si tratta di differenze culturali e di contesto. Diciamo piuttosto che in una società dove essere un cattivo padre non sconvolge nessuno mentre essere una madre appena un po’ mediocre è considerato peccato mortale (sic!), è quasi un riflesso condizionato per le donne quello di dover essere all’altezza, quello di dover prendere di petto il proprio ruolo, vaticanescamente assegnato, di super-mamme. Lo spazio per i babbi invece ci sarebbe (e c’è) tutto, andrebbe riempito con altrettanto “protagonismo”, con la stessa voglia di esserci e di farlo. Nel mio caso, ad esempio, non ho mai trovato resistenze da parte di mia moglie, ero anzi io ad essere certamente poco pronto e poco “entusiasta” su alcuni aspetti, e se solo fossi stato più disponibile già da subito avrei fatto un “buon servizio”, soprattutto a me stesso.

Molti genitori, mamme e papà indifferentemente, si sentono spesso inadeguati nel loro ruolo. Ritieni ci siano differenze tra la sensibilità di mamme e papà in questo senso? In che modo la pressione delle opinioni degli altri e i loro pregiudizi hanno condizionato la tua capacità di sentirti a tuo agio nel ruolo di padre?
Torno a dire che l’inadeguatezza nasce dal contesto, da ciò che alle persone viene richiesto, in termini di prestazioni: brutta parola per dire che, in un momento storico in cui c’è grande attenzione mediatica attorno ai temi della genitorialità, il sentirsi sotto osservazione non produce soltanto più materiale di informazione ma anche “ansia da prestazione”. E qui tornano le nostre grandi differenze, quello che viene preteso dalle donne e ciò che si domanda, gentilmente?, agli uomini: partecipare, condividere, contribuire. E chi invece fa tutto per destino biologico, perché è così che funziona? E persino la legge, come spiega il vostro post, sancisce ufficialmente delle differenze che sono in realtà un discrimine. Bisogna quindi essere sufficientemente lucidi per scansare le pressioni (appunto non siamo alle olimpiadi) e cercare una strada che sia percorso comune dove non c’è qualcuno che fa e qualcuno che partecipa né chi si occupa e chi contribuisce. Se persino l’idea dell’intercambiabilità (allattamento al seno permettendo) diventasse davvero concreto modo di essere genitori paritari e insieme, molti dei rischi di inadeguatezza sarebbero saltati di slancio. In realtà, accade esattamente il contrario: è davvero difficile sentirsi a proprio agio in un compito così delicato e con i riflettori tutti puntati addosso…

Che consigli daresti ad un neopapà?
Sono molte le tessere del puzzle necessarie per comporre l’identità del babbo. Ed è anche parecchio complicato distillare dalla propria esperienza un elemento universale, che possa essere donato ad altri. In realtà, allora, l’unica cosa a cui si può far riferimento è quella da cui poi, secondo me, discendono tutte le altre. E per ognuno le proprie. Il tempo. Prendersi tutto il tempo, quello necessario e anche oltre se possibile, per ascoltare in primo luogo i propri sentimenti e le consonanze (o dissonanze) che ne derivano. E se ascoltare è importante nei confronti degli altri (dei figli, poi!), è fondamentale, in questa costruzione, nei propri confronti. Ascoltare se stessi, ascoltare gli scricchiolii, godere delle fatiche (perché quelle davvero insegnano), godere delle lacrime che stanno sotto le emozioni e sotto le frustrazioni. Ascoltare, mai dare nulla per scontato. In questo mestiere, formidabile, di scontato non esiste nulla. Ecco, se potessi rifarlo, rifarei così: tempo e ascolto.

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3 thoughts on “L’intervista: la parola a papà “Desian””

  1. Bellissima intervista, molto onesta, approfondita e sincera. Un aspetto che ammiro in Desian, che seguo sul suo blog, è lo stile asciutto e non super affettuoso che invece spesso si trova in altri padri blogger.
    Questo penso sia dovuto a un bisogno dei padri di esternare disponibilità tout court, cosa non richiesta invece alle madri blogger. Una mamma può scrivere “che pizza, mio figlio bebè non mi lascia dormire! Se lo fa un papà forse ha paura di essere accusato di egoismo. Di atavico egoismo. E quindi lo stile del diario on-line diventa un po’ troppo dolce. Desian invece è capace di bilanciare e affrontare sentimenti ed emozioni. Una grande dote!

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  2. Desian è un papà blogger che scrive cose molto interessanti. Con questa intervista conosciamo altri aspetti di lui e facciamo i complimenti alla sua famiglia!

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