Diversi o uguali?

smalto-unghie-maschi Una conversazione avvenuta recentemente con il mio quattrenne mi ha strappato un sorriso e mi ha fatto riflettere sul bisogno di appartenenza e su come noi genitori ci comportiamo o dovremmo comportarci per soddisfarlo. Dentro di me la comprensione di questo loro bisogno fa perennemente a botte con la voglia di insegnare ai miei figli a pensare con la propria testa. Che si tratti di scarpe firmate, dell’ultimo modello di video gioco o di qualsiasi altro gadget, le richieste dei nostri figli per sentirsi uguali agli altri non fanno che crescere con l’età e non è detto che noi siamo sempre disposti a soddisfarle. Nulla di strano ovviamente. Mi ricordo ancora quanto ho odiato l’ortopedico che dopo aver visitato la mia spina dorsale ha detto a mia madre “mi raccomando signora, niente scarpe basse”. Era l’epoca delle All Stars e delle Clarks e io avevo dodici anni. Praticamente una condanna.
Non so se la mia schiena debba ringraziare o meno quell’ortopedico (io sospetto di no, ma potrei essere prevenuta), ma la mia autostima gli deve qualcosina, e non sono ironica. E non erano ancora gli anni duri dell’omologazione forzata in cui crescono i nostri figli oggi.

Non c’è giorno in cui io non mi interroghi su questo tema. Forse perché il nostro essere diversi è profondamente legato alla nostra vita da immigrati e fa parte volente o nolente della nostra quotidianità. Tipo quando invito un amichetto dei bimbi a cena mi interrogo se devo servire il pasto in un piatto unico servendo la pasta al pesto accanto alla cotoletta, o mi chiedo come dovrei reagire se mi chiedessero del ketchup da mettere sulla pasta al ragù (i miei figli hanno imparato che a casa nostra non si fa, ma gli amichetti?). Oppure capita di rimproverare i miei figli perché parlano svedese tra di loro, per poi pentirmene alla prima occasione quando ridono e urlano in italiano correndo tra gli scaffali di un grande centro commerciale. Ma credo che al di là della nostra specifica condizione di italiani residenti all’estero, ci sono milioni di cose, scelte piccole o grandi, che puntualmente ci verranno rinfacciare dai figli, con intensità diverse anche in base all’età, che li condizionano necessariamente e li rendono assolutamente ed inevitabilmente fuori dal mainstream delle scelte e dei comportamenti dei loro coetanei o dei loro genitori.

Le scarpe Lelli Kelly, lo zaino di Hello Kitty o di Superman, la Wii, le figurine dei calciatori, i trucchi, l’ora di religione a scuola, fino al motorino o al voler bere o provare qualche droga per sentirsi parte del gruppo. Perché se non fai come gli altri, se non hai le cose che hanno gli altri, allora sei fuori. E la sottile distinzione tra essere diverso, unico, e il pensare con la propria testa magari è quello che ti fa ritrovare isolato dai compagni.
Dove è giusto tracciare la linea? Come fare a trovare un equilibrio tra la loro voglia di appartenere, di sentirsi normali, uguali agli altri, e la nostra speranza che imparino a ragionare con la propria testa, che sappiano un giorno scegliere di non buttarsi dal burrone insieme ai loro amici?
E’ curioso come questo dubbio riesca a declinarsi anche in senso opposto, e alcuni genitori a volte farebbero qualsiasi cosa pur di avere un figlio “normale” che si comporti come tutti gli altri (e io stessa confesso di essermi ritrovata a pensare questo in alcune occasioni specifiche). Forse perché le due posizioni non sono così opposte tra di loro, ma sono due facce della stessa medaglia, e per questo non si può prescindere da nessuna delle due.

Io mi sforzo di chiedergli sempre cosa pensano loro, di guidarli nella riflessione del perché pensano che un qualcosa, un oggetto che vorrebbero avere, o uno sport che vorrebbero fare, sia veramente così divertente o se è piuttosto la spinta a fare come gli altri a farglielo scegliere. Non è semplice. Il Vikingo ad esempio ritorna periodicamente con la richiesta di qualche costruzione Lego, una cosa per la quale non ho intenzione di spendere soldi, perché so che è un mille volte più divertente saper costruire liberamente usando fantasia e immaginazione un qualcosa di originale, per poi smontarlo e ricostruire qualcosa di nuovo ogni volta. Eppure è difficile resistere perché c’è sempre un amichetto che ha una cosa bella, bellissima e che non manca di mostrargliela nelle occasioni di inviti reciproci a casa. A forza di parlarne, di mettere in discussione, di porgli domande (ma tu una volta che l’hai costruita e messa sulla mensola, cosa ci fai con questa cosa?), finalmente un giorno è stato lui stesso a dirmi che non ne valeva la pena, che il suo amico ne ha una bella ma non si può mai toccare per paura di romperla. E’ solo un punto segnato e palla al centro, per riprendere il processo e ripeterlo infinite volte, nella speranza di arrivare a maturare gli strumenti che gli permettano non solo di rispondere agli amici, ma anche sostanzialmente di fregarsene della loro opinione rispetto a certe cose. Forse la chiave è proprio quella della crescita e dell’evoluzione personale, e di riuscire a soddisfare il senso di appartenenza sulla base di quello che noi, con il nostro corollario di valori e cose che riteniamo giuste, possiamo concedergli.
Ad esempio per il nostro essere stranieri in terra svedese ci stiamo impegnando maggiormente nelle nostre relazioni con altri italiani con figli coetanei dei nostri, ed è bello vedere come si stia creando un gruppo di bambini che almeno nelle occasioni in cui ci si incontra si sentono di appartenere, e non è più strano intonare per un compleanno una canzone in entrambe le lingue, o trovarsi a discutere le regole di un gioco un po’ in una lingua, un po’ in un’altra.
Ecco forse la soluzione quindi passa proprio per la creazione di quelle possibilità in cui noi come genitori ci sentiamo a nostro agio, e in cui li aiutiamo a crearsi un’identità personale e al contempo a soddisfare l’appartenenza al gruppo.

Ciò non toglie che ci troveremo sempre e comunque in moltissime occasioni a dover fare i conti con i compromessi, e ad accettare di accompagnarli nostro malgrado ad una festa ai gonfiabili, o di vederli mangiare degli orribili hamburger mentre a casa si mangia solo biologico, per non privarli della gioia di sentirsi parte del gruppo.
E poi ci sono anche quelle volte, preziose, in cui la richiesta di appartenere, di fare come gli altri, può generare qualche riflessione profonda su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, su quali sono i valori che hai sempre dato per scontato e sui quali forse varrebbe la pena cambiare opinione, come nel caso della conversazione che ha ispirato questo post:

– Mamma, perché noi non abbiamo lo smalto alle unghie? tutti i miei amichetti ce l’hanno!
– Ah si? Ce l’hanno tutti?
– Si, anche J. e il suo papà!

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7 thoughts on “Diversi o uguali?”

  1. Beh! proprio ieri sera, mio figlio di tre anni mi ha chiesto perché io avevo lo smalto rosso sulle unghie dei piedi e lui no…gli ho tirato fuori una storia che fin dai tempi dell’antichità le donne usavano prodotti cosmetici per rendersi più attraenti e anche gli uomini per esempio utilizzavano la matita nera intorno agli occhi per essere più belli, poi ci sono stati periodi, nella Francia del 700, durante i quali sia gli uomini che le donne portavano le parrucche…insomma e via così, per spiegare che in alcuni periodi storici esistono convenzioni di comportamento alle quali si può decidere se uniformarsi o meno…
    in questo momento storico, per esempio, le femmine di solito portano lo smalto e i maschi no, ma si potrebbe anche cambiare e decidere magari di mettersi tutti lo smalto oppure di indossare il rosa e l’azzurro
    un pò come ci piace…

    a un certo punto, mi ha guardato serio e ha sentenziato…”ho capito”, “per lo smalto non lo so, ma il rosa è un colore di schifo per i maschi, perché è un colore da femmina….”

    E nessuno in casa aveva mai parlato di colori per maschi e colori per femmina, fino a quel momento…

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  2. Per il momento noi stiamo solo “seminando” (cosa si vedrà, speriamo bene) perché i figli sono piccoli, però riflettendo posso buttare lì qualche idea, frutto anche della mia esperienza quando ero dall’altra parte:
    – ad oggi sono contenta di essere stata “diversa”, di aver avuto interessi un po’ diversi rispetto alla media perché mi hanno portato a cercare qualcosa di nuovo. Per questo ringrazio i miei genitori che mi hanno sempre spinto a studiare e a viaggiare.
    – la diversità però non l’ho scelta io, ero così e basta e quando ero adolescente non ne ero sempre molto contenta, a volte avrei voluto che la piazza (veneta, come el_gae, nel mio caso un po’ provinciale) mi accettasse, mentre per loro ero un out
    – la diversità rispetto al gruppo ha accentuato l’individualismo, l’appartenenza a un gruppo se è sana aiuta a sviluppare anche uno spirito di corpo
    – ai miei figli cerco di spiegare che non sempre le cose sono come te le raccontano, ad esempio mia figlia inizia a dire che certe cose sono da maschi/femmine, però le faccio notare che a lei piace giocare sia con le winx che con le macchinine e che quindi forse ci sono solo giochi che piacciono e che non piacciono
    – se proprio vogliono le winx io non mi oppongo, cerco magari di glissare sul fatto che sono vestite un po’ poco per i miei gusti (ma l’ultima serie si è un po’ raffinata) e sottolineo i messaggi positivi come l’amicizia e il lavoro di squadra (e il fatto che sconfiggano i mostri senza spettinarsi, che non è da poco :-))
    Vorrei che i miei figli fossero “popolari” e al tempo stesso pensassero con la loro testa, mi sembra un obiettivo facile vero?

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  3. Quando andavo alle medie, in città, tutti i più fichi avevano le Nike. Ricordo di aver vinto un premio, una volta, come studente meritevole. Era un buono per delle scarpe da ginnastica. Non era sufficiente per comprarsi le Nike. Ero poco più di un bambino ma ricordo bene il senso di frustrazione nel constatare che l’impegno non avrebbe potuto compensare gli stipendi più bassi dei miei genitori (o semplicemente il buon senso di non comprare un paio di scarpe da 100 mila lire).
    Ci ripensavo proprio ieri sera (telepatia, Serena?) quando mia cognata parlava della sofferenza nel vedere la figlia 14enne che non si integra con le “amichette” perchè vorrebbe qualcosa di più una maggiore condivisione.
    È doloroso ma credo che aiuti. Sentirmi isolato mi è servito per “scantarme fora”, si dice in veneto. Ad imparare a farcela con le proprie forze a far apprezzare i piedi e non le scarpe.

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  4. Il senso di appartenenza determinato dal possesso o dal rito suscita in me forti perplessità. Innanzitutto perché sono sempre stata “diversa”, fin da piccola, per scelta. La diversità mi attirava e tuttora mi affascina. Infatti sono tuttora una diversa rispetto al “gruppo delle mamme in”. Pero la mia è una diversità che viene da dentro e che mi rende più felice del fingere di essere un’altra per appartenere a qualcosa o a qualcuno.
    Certo, non ho uno stuolo di amiche chioccianti nella vita reale, nè di fan adoranti in quella virtuale. Pazienza. Qualcuno con cui condividere quello che piace a me l’ho trovato comunque.
    Per i miei figli non so cosa augurarmi. Per ora non li vedo così diversi dai loro coetanei, così originali, nonostante gli esempi di pensiero indipendente che spero non abbiano troppo il tono di un predicozzo.
    Mi spaventano soprattutto, ovviamente, quegli aspetti dell’omologazione che a me sembrano particolarmente dannosi e che vedo svolgersi in un continuum: oggi le Winx, domani il sexting. Ed il fatto che spesso non bastano le scarpe giuste o il cellulare o il rito d’iniziazione per essere accettati in un gruppo.
    E se la forza di essere sè stessi di fronte ad un rifiuto, vero o immaginato, non viene da dentro non so davvero da dove possa arrivare.

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    • @momatwork

      E se la forza di essere sè stessi di fronte ad un rifiuto, vero o immaginato, non viene da dentro non so davvero da dove possa arrivare.

      io conto nel processo, nella crescita graduale, nell’arrivarci passo passo. Però ti confesso che ho mille dubbi in merito. Ce la faremo?

      @el_gae in effetti è questo il motivo per cui ho scritto, senza ironia di sorta, che forse è merito anche dell’ortopedico, preso come simbolo di tutto quello che in realtà i miei genitori mi hanno imposto che mi hanno resa diversa. E alla fine se non si esce piegati o rotti, se ne esce a testa alta. Adoro il far apprezzare i piedi e non le scarpe 🙂

      @Lorenza e si facilissimo 😉

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