La conciliazione è una questione di famiglia, non di pari opportunità.

La conciliazione tra lavoro e famiglia non come una questione “per mamme”, “per donne”, ma è un problema per genitori e quindi una questione di famiglia, nel suo complesso.

scegli-bene-uomo

È una partita a scacchi, quella tra Marissa Meyer, la giovane AD di Yahoo! e Sheryl Sandberg, COO di Facebook e nuova maitre-à-penser del femminismo americano.
Giocano a chi farà scacco matto nella partita della conciliazione famiglia-lavoro. Dopo aver deciso di eliminare il telelavoro per i dipendenti di Yahoo!, attirandosi gli strali di molti, la Meyer ha annunciato di aver allungato il congedo di paternità a 8 settimane, oltre a quello di maternità a 12 (il congedo, stabilito nel Family Medical Leave Act del 1993, non è rimborsato dallo Stato e sono invece le aziende che possono includerlo nell’assicurazione dei propri dipendenti, proprio come l’assicurazione medica e il fondo pensione) e un «bonus bebè» di 500 dollari.
Quisquilie, rispetto a quanto si fa in Facebook o Google, ma tanto basta a far ritornare la Meyer sulle pagine dei giornali, e per far tornare noi a riflettere su quanto è ampio l’Oceano Atlantico.

Non possono non venirmi in mente le parole di Sheryl Sandberg in un famoso intervento al TED del 2010 nel quale consigliava a tutte le colleghe di stare bene attente a chi si sposavano. Vuoi continuare a lavorare? Trovati un marito che ti aiuti a cambiare i pannolini.
Mettendo insieme questi pochi elementi, mi viene da pensare che ormai nella mente delle signore e delle politiche statunitensi è acquisito un dato che da noi rimane sempre nel limbo: e cioè, che la conciliazione famiglia-lavoro non è una questione di donne, ma è una questione di genitori. Non è una questione di pari opportunità, ma una questione di diritto e di possibilità di fare il genitore, padre o madre.

A guardare le statistiche sull’utilizzo dei congedi di paternità (facoltativi) nel nostro Paese, capiamo che la strada è ancora lunghissima, e solo tra qualche tempo potremo capire quale impatto hanno i tre giorni del congedo obbligatorio stabilito nella riforma Fornero. Tante le questioni che si intrecciano: gli uomini guadagnano più delle donne, le culture aziendali disincentivano l’utilizzo dei congedi (se ti va bene pensano che tu non sia interessato al lavoro, se ti va male i colleghi ti prendono per i fondelli per i sei mesi successivi), e se c’è a casa già la mamma, che bisogno c’è che ci sia anche il papà?

Tutto qui? È su questo che dobbiamo lavorare, sui congedi di paternità?
Jennifer Owens di Working Mothers USA, in un suo articolo sui “nuovi” congedi parentali di Yahoo! (per inciso, la Owens ce l’ha a morte con la Meyer per la vicenda del telelavoro) ricorda sagacemente che «Parenting is a marathon, not only a sleep-deprived sprint», fare il genitore è una maratona, non una gara di velocità (e quindi il telelavoro vale tanto quanto le buone politiche sui congedi parentali, beccati questa, Marissa).

E qui ritorna il consiglio di zia Sheryl: scegli bene l’uomo con cui con-dividere la tua vita.
E ok, DonnaEmancipata e UomoIndipendente sono la coppia fiore all’occhiello delle pari opportunità, lui si lava i calzini da solo e che non le chiederà mai di stare a casa a preparargli la cena. Eppure, a un certo punto, succede. Succede che questa coppia metta al mondo un pargolo, che nonostante tutta l’emancipazione materna piange, ciuccia latte e fa la cacca, e la nostra coppia si tramuti improvvisamente nella versione post-moderna di nonno Giuseppe e nonna Maria: lui lavoro e divano, lei pargolo e bucato (e blog).

Niente di male, per carità.
A poterselo permettere.
Perché nella versione post-moderna di nonno Giuseppe e nonna Maria, lei oltre al pargolo, al bucato e al blog ha anche un lavoro, per di più necessario. Sempre per la solita storia della crisi. Poi lei a un certo punto si stufa, e molla il lavoro, più spesso del marito, per fortuna. E allora ecco di nuovo tecnici e politicanti ad affaccendarsi alla ricerca di una soluzione nelle pari opportunità, impiego femminile, dati demografici, e tutto quel gran guazzabuglio di grafici e numeri: donne, madri, asili nido, parità, quote, incentivi, leggi, congedi, leggine e decreti.
Che, se la conciliazione fosse una questione di famiglia, magari verrebbe riconosciuto anche il diritto a non lavorare per dedicarsi alla cura del proprio figlio, con una tassazione che sia equa – ma provate a dire questo in giro in Europa e vi accuseranno di voler rispedire le donne dentro le mura domestiche dalle quali infine sono state liberate, e ritorniamo daccapo.

Perché il vizio sta tutto lì: in Europa le politiche di conciliazione sono ancora politiche per permettere alle donne di lavorare, non politiche per il benessere del lavoratore e/o della famiglia.
E questo vale per il discorso pubblico.

conciliazione_famigliaPoi mi sono accorta che c’è anche un discorso tutto privato, di quelli che si fanno (o, meglio, non si fanno) tra le mura di casa.
Torniamo indietro un attimo. Torniamo a due secondi prima dell’implosione, a quella sera in cui il neonato finalmente si è addormentato e Donna Emancipata e Uomo Indipendente si ritrovano sul divano. O ancora più indietro, al momento in cui si sono guardati negli occhi e si sono detti “Facciamo un bambino”.
Stop.
In quel momento sospeso, e in tutti i giorni che seguono quel momento, i due si sono chiesti e si sono detti reciprocamente chi si sarebbe preso cura del bambino? Chi lo avrebbe accompagnato al nido, chi dal dottore quando è malato, chi alla lezione di tennis? Si sono ridetti la reciproca responsabilità delle loro scelte e decisioni, di decisioni prese in due? Ne hanno parlato, in quel momento e negli anni a seguire? (perché un conto è farle, le cose, un conto è dirsele).
Da una ricerca australiana, risulta che le mamme che hanno scelto di rimanere a casa dopo la nascita del figlio non hanno discusso insieme al partner questa loro scelta.

Ancora, mi ronzano in testa le parole di zia Sheryl: scegli bene l’uomo con cui con-dividere la tua vita. E mi viene da pensare che non intendesse, banalmente, “sposati uno che sappia caricare la lavastoviglie” ma “sposati uno con il quale condividere le scelte di lavoro e di cura della vostra famiglia”.

– scritto da Lorenza di Milano e Lorenza

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34 thoughts on “La conciliazione è una questione di famiglia, non di pari opportunità.”

  1. Ciao Serena

    due cose: nel suo articolo Slaughter non parla solo di una scelta personale ma fa un bilancio appunto delle politiche USA sul lavoro femminile. A me viene la pelle d’oca leggendo le condizioni assolutamente allucinanti delle lavoratrici madri americane, credo che il loro congedo obbligatorio di maternità sia tipo di 10 giorni (vado a memoria).

    Quello che la Slaughter dice è che in queste condizioni la conciliazione è impossibile, che lei dopo ANNI si è resa conto di essere una mosca bianca e questo perché

    1. fa un mestiere dove può gestirsi il tempo come vuole
    2. perche’ ha avuto un presentissimo marito, che accompagna i figli a scuola, va a parlare con gli insegnanti e a tifare alle partite, ecc.

    Di fatto il suo cedere le armi di fronte alla crisi adolescenziale di suo figlio le ha fatto vivere per la prima volta quello che milioni di americane sapevano già da prima, ma lei non se ne era mai resa veramente conto.

    Purtroppo la formulazione dell’articolo ha aperto il varco alla distorsione interpretativa, ma io ci ho letto un duro atto d’accusa contro le politiche di genere in America.

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  2. Evviva zia Sheryl! Personalmente ho sempre pensato che gli equilibri familiari di ogni genere, siano essi economici o di cura familiare, passino per la coppia, cioè per la fase embrionale della famiglia con figli. Io, madre di due figli maschi, sento fortemente la responsabilità di insegnare loro che lavorare fuori casa è un dovere morale per entrambi i genitori nei confronti della famiglia, così come lo è la cura della stessa. Se vado a lavorare non lo faccio per sottrarre tempo a te, bimbo mio, ma perché devo contribuire come papà al nostro mantenimento; altrettanto papà, invece di rincorrere “sogni di gloria” altrove più di una volta ha rinunciato per poter tornare dai figli ammalati, per far loro il bagno o per la riunione a scuola. Non è facile per nessuno. La mentalità che ci circonda è assolutamente sfavorevole, la politica (specchio della mentalità) non ne parliamo e spesso si rischia di soccombere se non si è d’accordo in due (e qui zia Sheryl è davvero un mito!).
    La cosa che mi spaventa è che molte donne della mia età o poco più decidono “per forza” di stare a casa perché i lavori dei mariti sono sufficienti a mantenere tutti e troppo impegnativi per esserci per i figli. Poi le stesse donne si lamentano di avere sempre i figli addosso e di dover lasciar perdere tutte le ambizioni in ambito lavorativo. Sembra quasi che nella coppia si sia dato per scontato uno schema arcaico e che i soggetti non si parlino. A me questo assurdo! Forse le minori entrate della “carriera” di lui potrebbero essere compensate da un contributo di lei. Ma questo comporta il forte impegno di andare controcorrente, di battagliare spesso e di considerare la spesa per l’asilo nido come un investimento sulla famiglia. Molte lasciano perdere e si trincerano dietro i figli per il “vorrei ma non posso”.
    Non dubito che per una fascia di popolazione ci sia una questione di sopravvivenza che va oltre i nostri discorsi, ma per una gran fetta della fascia media, a parer mio, è una questione di “cultura sociale e familiare”. E se mollano quelle che hanno la testa e la possibilità per farlo, allora rischiamo la deriva totale.

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  3. Il mio commento si è temporaneamente sovrapposto con quello di deborah, e siccome io parlo espressamente di lei espressamente di donne a bassa scolarizzazione, il senso del mio commento risulta parzialmente distorto.
    Non ne faccio una questione di status. La condizione di una persona che può permettersi di studiare senza necessariamente dover lavorare è ancor più privilegiata. Ma la condizione di una persona che non lavora,per caso o per scelta, che abbia studiato o no, la mette in condizione di dipendenza economica da altri: il/la compagno/a, i genitori o altri familiari, un organismo assistenziale.
    E questo vale per un uomo o per una donna.
    Chiediamoci anche: tutti gli uomini vorrebbero lavorare fuori casa 8 ore al giorno? è veramente libero l’uomo che lavora perchè deve? Tutti gli uomini hanno lavori prestigiosi, gratificanti e ben pagati e a noi restano solo quelli umili, massacranti e sottopagati?

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  4. Secondo me sono aspetti talmente interconnessi che risulta impossibile scinderli e spesso coincidono. Da un lato le pari opportunità riguardano le donne in quanto individui che possono anche, per scelta o per caso non diventare mai mogli o madri. Cosa dobbiamo dire alle neolaureate? Che non si preoccupino di quel che scrivono nel curriculum, ma di venir bene nella foto e magari qualcuno prima o poi se le sposerà sollevandole dalla necessità di trovare un impiego?
    Poi arriva, per alcune (lavoratrici e non), questo momento (le altre dovranno per anni sorbirsi gente che chiede perché invece loro no). Se il concetto di parità è ancora un concetto diffuso in una minoranza della popolazione ambosessi, ecco che anche solo la coscienza che c’è possibilità di scegliere se mantenere, lasciare, cercare, condividere il lavoro si riduce.
    Se arriva un figlio ed ancor più se ne arrivano alcuni, si passa alle politiche familiari: solo se le pari opportunità sono un fatto acquisito, se c’è minore pressione culturale, se non c’è differenza di stipendio e agevolazioni, anche la suddivisione dell’impegno genitoriale non sarà una scelta obbligata, ma una libera scelta di famiglia.

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  5. Sono cresciuta in una famiglia in cui la mamma non lavorava, perché appunto a quei tempi uno stipendio solo bastava. Eppure mia mamma mi ha sempre detto: la libertà passa dall’INDIPENDENZA ECONOMICA.
    Non dubito che la maggior parte dei lavori siano ingrati, faticosi, tutto quel che volete. Ma se la donna sta a casa mantenuta dal marito, non avrà mai possibilità di scelta. Sarà sempre quella senza reddito.
    Quindi insisto: dare la possibilità di lavorare a entrambi è indispensabile.

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  6. Ripropongo la questione: siete così sicure che tutte le donne vorrebbero lavorare fuori casa 8 ore al giorno? Basta spostare l’ottica dal mondo delle donne colte con lavoro prestigioso, stimolante e interessante, alle donne meno favorite dalla sorte. Io vivo in una città ancora poco toccata dalla crisi. Qui, le donne a bassa scolarizzazione che non lavorano sono le privilegiate, altro che poverine. Provate a chiedere loro che lavori troverebbero, se non bastasse lo stipendio del marito. Ci si dovrebbe chiedere, piuttosto, come mai fino a 30 anni fa , bastava uno stipendio per poter vivere una vita dignitosa e ora non ne bastano due. Ma è veramente libera la donna che lavora perchè deve? o è più libera quella che può permettersi di non lavorare? Date un’occhiata alle classi più basse , quelle coi lavori più umili e poi ditemi se è così sbagliato preferire la cura dei figli a turni massacranti come cassiera, ad esempio, al supermercato. E’ un lavoro che libera e gratifica quello? O è un lavoro che schiavizza, perchè in questo mondo impazzito serve sempre più moneta per vivere? Quanto a me, pensate che se il mercato del lavoro offrisse più possibilità, non avrei già mollato il mio attuale? Se avessi la possibilità economica di non lavorare, almeno per un po’, non avrei già provato a cercarne un altro che mi piacesse di più? Qui in Italia , puoi divorziare da tuo marito, ma abbandonare un posto di lavoro diventa un problema troppo grosso. Così te lo tieni, anche se non ti piace per niente e non ha niente a che fare con la tua vita. Anche se è un errore di gioventù. Ti ritrovi incastrata peggio che una ragazza madre ;)Scusate la polemica, ma troppo spesso si parla di donne e lavoro come se tutte potessimo lavorare come A. D. in qualche grande azienda, dimenticando che, la maggior parte di noi vive una situazione completamente diversa dalle elites.Quindi mi associo in toto al post di Lorenza. In sostanza , per come la penso io, in un paese civile, dovrebbe bastare 1 sola persona che lavora in una famiglia, almeno per per le esigenze fondamentali, per vivere una vita dignitosa. Uomo o donna poi, non faccio differenza tra sessi. Avete invece l’idea di quali siano gli stipendi di occupazioni non qualificate? provate a vedere. E i costi degli affitti, (senza poi parlare dei mutui.) Il lavoro obbligato di entrambi i genitori per tirare a campà non è un lavoro che libera. Nè l’uomo, nè la donna.

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  7. 🙂 Ah sì, e poi c’è l’articolo della Slaughter… Che anche io ho trovato davvero interessante e molto bello, tocca un sacco di temi interessantissimi sia pubblici sia privati (il tema della scelta e delle donne, che secondo me è fondamentale, il tema dei tempi del lavoro, il tema della cura dei ragazzi adolescenti e anche, come dice Serena, il tema del padre – che non c’è – ma forse era lei che ha deciso di esserci, chi lo sa…). Banalizzato dai media italiani – ma sulla questione della gestione degli stereotipi sui media italiani, c’è chi scrive molto e molto bene sul web!

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  8. Tento qualche commento aggiuntivo di sintesi e rilancio su alcuni punti
    1.Permettere alla donna di lavorare deve essere sempre la priorità, scrivi, Elena Elle. E sono perfettamente d’accordo, e rilancio: siamo sicuri che viviamo in una cultura che permette? O non viviamo piuttosto in una cultura lacerata tra due doveri, il dovere di stare a casa a curare i figli (vecchi stereotipi) e il dovere di andare a lavorare (nuovi sistemi di workfare), in genere (penso a molte donne) più per dover sostenere la famiglia che per scelta di auto-realizzazione personale? Siamo sinceri, guardiamo alla qualità del lavoro delle donne, soprattutto nel nostro paese, come ci racconta deborah.
    2. E qui arriviamo alle pari opportunità. Ci ho pensato su parecchio, in questi giorni, per una serie di incontri. Rimango stra-convinta che nel nostro Paese, dopo questi vent’anni, ci sia bisogno davvero di ricostruire una cultura delle pari opportunità come dopo una calamità naturale. E ho pensato che togliere il tema della conciliazione alle pari opportunità è un po’ come togliere la coperta di linus: obbligare le pari opportunità ad affrontare questioni serissime come la qualità della partecipazione delle donne alla vita lavorativa e politica, i percorsi di carriera, l’organizzazione del lavoro, la costruzione di un welfare di opportunità che non sia un workfare e neanche un sistema svedese, che tanto non possiamo permettercelo e forse non lo vogliamo neanche. Occupiamoci (senza paura) delle donne in quanto donne, e non delle donne-che-però-poi-diventeranno-anche-madri. Senza essere ideologici, però, perché a parer mio inculcare una cultura del “tu devi lavorare a tutti i costi” equivale a inculcare una cultura del “tu devi stare a casa a stirare le camicie a tuo marito a tutti i costi”
    3. Sfidiamo lo stereotipo che le politiche familiari sono politiche contro le donne: la Francia, che è uno dei paesi che spende di più per la famiglia (e non per le pari opportunità tra individui, sul modello svedese appunto) è anche uno dei Paesi nel quale le donne lavorano di più.
    4. E poi sì, ogni tanto, nei nostri discorsi, ricordiamoci che ci sono anche i bambini

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  9. Posso portare a questa interessante discussione la mia esperienza personale? Sono mamma di una figlia di sette anni, ormai. Che lavora part time nel pubblico, dove la trasformazione in questi anni è stata tale che ti chiedi se è valsa la pena laurearsi, passare un concorso, per fare un lavoro a dire poco arido e con quasi nessuna possibilità di progressione economica e di carriera. Certo, c’è la garanzia del congedo parentale. Mio marito lavora da autonomo, nessuna garanzia quindi, ma tanta possibilità di progredire economicamente. Secondo voi, chi si occupa prevalentemente della figlia?
    Il discorso a quattrocchi ce lo siamo pure fatti. Lui:”Facciamo un bambino?” Lei ,dopo l’ondata di panico , risponde” Ok, però si fa fifty fifty”. E così è stato per i primi tempi. Poi le cose, si sono evolute nella maniera che vi ho detto. A volte tutte le garanzia, tutti i congedi parentali non bastano.

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  10. “Il leader maschi vengono regolarmente elogiati per aver sacrificato la loro vita personale sull’altare del servizio pubblico. E quel sacrificio riguarda quasi sempre la famiglia”.
    (…)
    “Perché mai dovremmo chiedere ai nostri leader di sottrarsi alle responsabilità personali? E invece proprio quei leader che hanno maggiormente investito il loro tempo nella cura della famiglia potrebbero rivelarsi molto più sensibili al peso delle loro politiche, dalla guerra alla previdenza sociale”.
    (…)
    “Non avevo semplicemente bisogno di andare a casa: mi sono accorta che, dentro di me, lo desideravo intensamente. Volevo poter trascorre il tempo con i miei ragazzi negli ultimi anni, prima dell’ università, gli anni cruciali per il loro sviluppo in adulti responsabili, impegnati e felici. Ma questi sono anni insostituibili anche per me, per godermi le semplici gioie di essere madre – le partite, i saggi di pianoforte, la colazione a casa, le gite in famiglia, le festività tradizionali. Mio figlio maggiore è molto migliorato in questi mesi ma anche quando ci fa dannare, come è normale che sia per un adolescente, essere a casa per aiutarlo a prendere le sue decisioni rappresenta per me il compito più gratificante”

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  11. Articolo molto ricco grazie, ci tornerò fra un po’ perché vorrei rileggermelo per bene. Vorrei aggiungere però che negli USA un tassello secondo me molto importante del dibattito sulla conciliazione è venuto da questo articolo qui

    http://www.theatlantic.com/magazine/archive/2012/07/why-women-still-cant-have-it-all/309020/

    I giornali italiani che lo hanno tradotto l’hanno fatto generalmente molto male e distorcendo il messaggio piegandolo alla realtà italiana, comunque potete trovare una sintesi qui

    http://27esimaora.corriere.it/articolo/un-sogno-fino-alla-casa-bianca-e-ritorno-a-casa-da-un-figlio-adolescente-perche-anna-marie-e-una-di-noi/

    L’autrice è Anne-Marie SLAUGHTER, una con la 6^ marcia, professoressa a Princeton e direttrice della programmazione politica a Washington per Barack Obama, finché – come racconta nell’articolo – ha deciso di dimettersi per seguire il figlio 14enne ribelle che andava male a scuola.

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    • @Closethedoors mi ricordo benissimo quell’intervista, e mi ricordo la distorsione della stampa italiana in merito. Lei però nell’intervista originale parla di se stessa, di una sua scelta personale, e questa possibilità di scelta è quella per la quale c’è bisogno di lottare. Se lei abbia fatto o meno la scelta giusta non sta certo a noi dirlo. E’ una storia che è di pertinenza esclusivamente della famiglia in questione. Quando la stampa italiana ha stravolto il messaggio invece ha cercato di metterle in bocca parole che lei non ha detto, un avvertimento a tutte le donne che vogliono seguire una carriera. Ancora una volta c’è un attore che manca totalmente in questo spettacolo. Dove è il padre di quel quattordicenne?

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  12. Questo passo per me è molto molto delicato:
    “Perché il vizio sta tutto lì: in Europa le politiche di conciliazione sono ancora politiche per permettere alle donne di lavorare, non politiche per il benessere del lavoratore e/o della famiglia.”
    Io credo che permettere alla donna di lavorare deve essere sempre la priorità. Perché una donna che può scegliere se lavorare o stare a casa avrà delle risorse in più di una che subisce una scelta fatta da altri. In altre parole: se si facessero delle politiche per il benessere della famiglia, come qui auspicato, si rischierebbe l’equazione: bambino felice = mamma a casa. Scommettiamo?
    P.S. Come Zaub sto in coppia fiore all’occhiello, per mia fortuna e anche per mia scelta (visto che ho potuto scegliere!)

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  13. Quand’ho incontrato quello che sarebbe diventato l’uomo con cui ho condiviso la maggior parte della mia vita (e con cui spero di condividerne ancora molta) avevo vent’anni e sinceramente non avevo un’idea precisa di quella che sarebbe stata la mia vita. Il fatto di averlo incontrato come compagno di studi e di essere in sintonia su alcuni argomenti mi sembrava garanzia sufficiente per trovare un accordo su temi che nessuno di noi era nemmeno in grado di immaginare.
    A trent’anni ero sicurissima di non volere figli.
    A trentacinque ne avevo due.
    A quaranta devo ancora metabolizzare il desiderio, irrealizzato, di averne tre.
    Le prime due volte non ci siamo guardati negli occhi e non ci siamo chiesti un bel niente; la terza, anzi, le innumerevoli terze non-volte, ci siamo guardati e parlati fin troppo, ma non era situazione da cui si potesse uscire con un win-win.
    Quando ci si dice “facciamo un bambino”, sempre che lo si faccia, ci sono troppe variabili in gioco, prima fra tutte che un bambino si riesca effettivamente a farlo. Fra le cose che sapevo, ad esempio, c’era che io e mio marito avevamo opinioni divergenti sull’adozione, ma, forse, se non avessimo potuto avere figli biologici, anche lui avrebbe cambiato idea. O forse avrei cambiato la mia sulla fecondazione artificiale. O avremmo potuto semplicemente rinunciare all’idea ed essere una felice coppia childfree. O una disperata coppia childless. O non essere più nemmeno una coppia, non lo so.
    Nel nostro caso le politiche che mi hanno permesso di continuare a lavorare, compreso il congedo parentale di mio marito, sono andate via via diminuendo con l’età dei figli, come se a 5 o 8 anni gli si potesse dire “arrangiatevi” ed in questo momento non sono sufficienti al benessere mio e della famiglia.
    Nnostante i pochi elementi a disposizione e le divergenze che abbiamo avuto in seguito, credo di aver scelto bene, vent’anni fa.
    Ma non sembre basta la conciliazione di famiglia.

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  14. Molte perplessità davvero. Sono in disaccordo su diverse questioni.
    1. Non parlerei con disprezzo dei politici che si industriano quando si degnano, poco per i miei gusti, di occuparsi di politiche per il lavoro femminile. Sia perchè il problema è una sperequazione reale delle opportunità, e non occuparsi di questa sperequazione è sessista, sia perchè i bambini non sono poppanti sempre e le donne possono lavorare se ci sono strutture congrue, sia perchè colla detassazione ci si fa una cippa, quando si ha il mutuo o l’affitto a carico.
    2. Parla una che è l’esempio della coppia fiore all’occhiello, modestia a parte anche dopo la nascita del bambino, ragion per cui sono di nuovo incinta. Si noi abbiamo parlato prima, e si me lo sono scelta bene. Quando nacque facevamo i turni, presi la mia seconda laurea con il figlio nato. Ho costruito la mia professione soprattutto negli ultimi tre anni. Grazie a mio marito che lo guardava quando poteva e al nido comunale. Tuttavia mio marito ha potuto farlo, anche per la flessibilità della sua professione. So bene, anche per lavoro, sono psicologa e mi occupo di genere, quanto incidano questioni intrafamiliari, caratteriali variabili soggettive accordi etc. Ma le forme in cui si strutturano questi accordi, sono quelli della cultura. Se il nido non c’è non c’è spazio per un pensiero, se il congedo obbligatorio per il padre non si contempla, il padre fa fatica a considerare la divisione del ruolo un obbligo considerabile. Se non si lavora culturalmente per una diversa divisione del lavoro, è ben difficile riuscire a ribaltare la semantica culturale tra le pareti domestiche. In specie in contesti sociali dove non ci sono le risorse culturali per farsi delle domande ed esigere dei cambiamenti. Insomma questo articolo, mi persuade poco.

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    • @Zauberei quando dici “Se il nido non c’è non c’è spazio per un pensiero, se il congedo obbligatorio per il padre non si contempla, il padre fa fatica a considerare la divisione del ruolo un obbligo considerabile.” sono perfettamente d’accordo con te. L’aspetto fondamentale del post di Lorenza è che troppo spesso si parla ad esempio di asili nido solo in funzione della conciliazione per la donna. Il fatto che la presenza di servizi per l’infanzia possa essere una politica familiare vincente non è nemmeno pensata, nell’immaginario comune l’asilo nido serve per far lavorare la donna. Per me invece l’asilo nido ha più funzioni, la prima conseguenza immediata è che la donna può lavorare, ma poi si porta dietro altre conseguenze per il fatto che l’indipendenza economica della donna gioca un ruolo importante, e avere due stipendi è meglio per tutta la famiglia, anche per i figli. I bambini che hanno entrambi i genitori che lavorano vivono meglio, hanno più prospettive per la loro vita, e hanno più possibilità per fare esperienze maggiori che li porteranno ad avere posizioni lavorative migliori. Per me è veramente importante parlare di politiche famigliari e non di politiche per la donna, e riequilibrare il discorso, che altrimenti tutti continuano a vedere come un problema che non li riguarda (a parte forse le donne). L’obbligo al congedo di paternità come ho detto più volte lo introdurrei senza nemmeno pensarci su troppo, e lo chiamerei anche in questo caso congedo parentale obbligatorio per entrambi i genitori. Così che nessuno possa sentirsi escluso o incluso a forza.

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  15. un articolo bellissimo, che sposta l’attenzione su vari punti di vista che ovviamente condivido!!!!
    nella nostra cultura italiana, forse più che in altre, il maschio medio delega moltissimo alle donne-mogli-madri. quindi questa conciliazione familiare deve sovvertire veramente radici culturali ancora ben radicate, chissà forse, dopo, di conseguenza, si muoverà qualcosa anche negli altri ambiti.
    nel mio caso, il marito mi sostiene, in moltissime attività e questo oltre a rendermi felice, spero sia motivo di imitazione per i miei due figli maschi, uomini della futura società. Nel mio caso, la conciliazione che mi manca è quella che dovrebbe comparire tra le istituzioni e altri servizi di sostegno alla famiglia. Ma questa è la solita storia, niente di nuovo 😉

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