L’aborto in Italia: dalla 194 alla RU 486

Comunque la si pensi, qualunque sia la nostra fede o non fede religiosa, qualunque siano le nostre idee in proposito, nessuno potrà negare che nel 1978 l’Italia ha compiuto uno dei suoi momenti di svolta culturale.
Il percorso che aveva portato il nostro Paese dal mondo rurale a quello del boom economico, doveva sfociare in grandi e sofferte scelte legislative che prendessero atto che si entrava in un’altra epoca. Il decennio degli anni ’70 è stato uno dei più intensi in quanto a produzione normativa che esprimeva una nuova società: la legge sull’aborto, quella sul divorzio, ma anche lo statuto dei lavoratori e così via.

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Fino al 1975, in Italia l’aborto era sostanzialmente illegale, in qualsiasi forma e per qualsiasi motivazione. O l’aborto era spontaneo, oppure era reato, sia per la madre che per il personale medico o paramedico (o altro!) che lo praticavano.
Ovviamente l’escamotage più evidente era quello di far passare tutto per aborto spontaneo, con pratiche clandestine (più o meno, ovviamente) ai limiti del disumano.
Altra possibilità, sviluppata dalla giurisprudenza, era quella di ritenere l’aborto, in alcuni casi, giustificato dallo “stato di necessità“, previsto dall’articolo 54 del codice penale (come causa scriminante: che rende non punibile un comportamento altrimenti illecito), ritenendo così non punibile l’intervento abortivo reso necessario per salvare la vita della gestante e, in taluni casi, anche per ragioni di salute, purché gravi. Era comunque una situazione che prevedeva l’intervento dell’autorità giudiziaria e, quanto meno, un’indagine (se non un processo).

Nel 1975 la Corte Costituzionale pronunciò una sentenza storica (n.27), a dimostrazione che quasi sempre è la giurisprudenza che si adegua ai tempi ed alla società, prima che le leggi si mettano al passo. Un passaggio di questa sentenza sanciva per la prima volta che ““[…] non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare“.
Questo concetto, che tanto avrebbe dato da discutere negli anni successivi, apriva la strada alla possibilità di considerare non più reato l’aborto terapeutico.

Nel 1978, dopo un intenso dibattito politico sì, ma essenzialmente culturale (come allora lo fu la politica), i tempi erano maturi per la legge n.194, che porta il titolo “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza

La LEGGE n.194/1978, per estrema schematizzazione, prevede tre momenti della gestazione che sono sottoposti a regime giuridico diverso quanto alla possibilità di interrompere la gravidanza.
Il periodo dall’inizio della gravidanza al 90° giorno è quello in cui l’aborto volontario è consentito comunque. La formula legislativa (art. 4) è molto ampia ed anche se si è mantenuto il riferimento ad un motivo di salute fisica o psichica della donna, sostanzialmente è la volontà della donna a prevalere.
Anche la comunicazione da parte del personale sanitario cui ci si rivolge al padre del concepito, possono essere effettuate solo su autorizzazione della gestante.
Rivolgendosi ai consultori (di cui si prospettava nella legge l’istituzione e che oggi non godono di “buona salute” su gran parte del territorio), al medico di base o ad una qualsiasi struttura ospedaliera, si ha diritto ad accedere gratutitamente all’interruzione di gravidanza.
Nel periodo che va dal 4° mese di gravidanza alla possibilità di vita autonoma del feto, invece, l’aborto è legittimo solo se terapeutico. Anche in questo caso la formula è ampia (artt. 6 e 7): ci si riferisce anche alla necessità terapeutica di salvaguardare la salute psichica della donna o a motivi c.d. “eugenetici”, cioè evitare la nascita di un bambino con gravi malattie. Comunque è necessaria una certificazione medica che consenta il ricorso all’interruzione.
C’è poi il periodo (piuttosto breve) compreso tra il momento di vitalità autonoma del nascituro e la nascita, in cui l’interruzione è consentita solo per un pericolo di vita della donna (è la l’ipotesi che consente ai medici di operare una scelta, in caso di gravi complicazioni nel momento della nascita o di poco precedente, su chi salvare tra madre e figlio).

Ovviamente dall’inizio del 4° mese di gravidanza, si apre tutto un territorio in cui continuano a proliferare gli aborti clandestini. Negarlo è chiudere gli occhi all’evidenza.
Numerosissime le inchieste giornalistiche sull’esistenza di medici e strutture sanitarie, anche clandestine, disponibili ad offrire questo tipo di “prestazione”, del tutto illegale.
Gli articoli da 17 a 20 della L. 194/78 sanzionano proprio i reati di “procurato aborto“, distinguendo tra quello colposo (per esempio derivato da un trattamento medico errato); a quello doloso provocato senza consenso della donna (come per esempio conseguenza di percosse); a quello che prevede la violazione delle norme della legge, quindi su richiesta della donna (che viene punita in modo piuttosto lieve rispetto a chi pratica l’aborto).

Con l’entrata nel circuito farmaceutico italiano del farmaco chiamato RU 486, la così detta pillola abortiva, si è creata una polemica o un allarmismo piuttosto sterile, in quanto risolvibile con una semplice lettura delle norme.
La RU 486 non può in alcun modo considerarsi contraria alla legge 194/78, in quanto in nessuna norma si indica con quale tipo di procedura debba attuarsi l’interruzione di gravidanza. Nella legge non si menziona neanche se il trattamento abortivo debba essere medico o chirurgico.
Anzi, nell’art. 15, si specifica che le regioni debbono promuovere l’aggiornamento del personale e l’applicazione nelle strutture sanitarie delle tecniche più moderne, innovative e sicure per la salute delle donne. In questo, dunque, la legge 194 è stata lungimirante: non solo l’uso della RU 486 non si oppone alla legge, ma anzi potrebbe considerarsi promosso da questa, laddove fosse certo che si tratti del metodo meno invasivo e più sicuro.

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66 thoughts on “L’aborto in Italia: dalla 194 alla RU 486”

  1. Sono d’accordo con Elisa, ritengo l’avere un figlio una enorme responsabilita’. Anzi, vi diro’, leggere tutti questi commenti mi ha fatto capire che l’emozione predominante del mio essere madre e’ proprio la responsabilita’. Quindi innanzi tutto grazie per avermi aiutata a conoscere meglio me stessa. Mi rendo anche conto che non e’ cosi’ per tutti: c’e’ chi un figlio lo considera soprattutto una benedizione, chi un atto d’amore, chi un caso, chi un regalo eccetera. Io lo considero una responsabilita’, e ho cominciato a metterlo in cantiere solo quando almeno uno fra me e mio marito ha avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato (lui, ovviamente :P). Sono una donna molto fortunata: non mi ha mai fatto cilecca un anticoncezionale, non ho mai avuto un compagno che rifiutasse i preservativi (succede anche questo), non ho mai dovuto ricorrere alla pillola del giorno dopo, mia figlia e’ arrivata al primo tentativo ed e’ nata sana e forte (ho avuto una brutta minaccia d’aborto al terzo mese e no, non avrei dato la vita per lei ma tutto il resto si: il lavoro, per esempio, l’ho dato).
    Spero di insegnare a mia figlia, fra le altre cose, ad avere rispetto per gli altri, tutti gli altri. E questo comprende eventuali bambini: spero di poter parlare con lei di sesso prima che se ne faccia un’idea sbagliata altrove, spero di farle capire l’importanza della contraccezione e i pro e i contro dei vari metodi, spero di saperle spiegare il dramma di una IGV, io che fortunatamente non l’ho mai dovuta fare. Spero che la famiglia del suo compagno si sara’ comportata allo stesso modo. Spero che non debba mai ricorrere a un aborto terapeutico. Spero che possa avere dei figli, se e solo se li vorra’. Spero di poterla supportare al meglio se qualcuna di queste mie speranze verra’ disattesa, ma se questo dovesse succedere spero che abbia la possibilita’ di interrompere una gravidanza indesiderata o pericolosa in modo sicuro e meno doloroso possibile.

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